
Se ripenso al mio weekend, mi vengono in mente due elementi che enunciano lo stesso concetto ma che, in realtà. sembrano non avere nulla a che fare l’uno con l’altro. Il primo è il verbo tedesco Faulenzen che mi piace sia a livello di suono che di significato. Se dovessimo dire “dolce far niente“, quello sarebbe faulenzen. Il secondo elemento è una canzone di Morrisey che si intitola Spend the day in bed. Premesso che non riesco a passare tutto il giorno proprio a letto, il concetto non cambia. Io, almeno, devo cambiare ambiente e passare dal letto al divano. Cambiare ciò che indosso: dal pigiama ad abbigliamento da casa. Devo fare qualcosa di questo genere. A voi è mai capitato o capita ogni tanto? Io, guardando le date sul calendario, mi rendo conto che, circa ogni 6 mesi, ho bisogno di un reboot completo e così è andata nei giorni scorsi.
Il sacrosanto diritto di fermarsi

Non sono la prima a dirlo e di sicuro non sarò nemmeno l’ultima Viviamo in un’epoca che ci vuole tutti colleghi del Bianconiglio. È sempre tardi e dobbiamo essere tutti occupati. Il nostro presente ci ha imposto – almeno fino alla pandemia – una sorta di dictat che ci voleva o impegnati o praticamente buoni a nulla. Frasi del tipo “guarda, non ci possiamo vedere questa settimana perché non hai idea di come sia il mio calendario”. Eccola, pronta, alzo la mano e faccio mea culpa: guardavo il calendario e vedevo pochissime caselline vuote, non importa le altre fossero riempite dal colore rosa (le mie cose personali) o dal colore blu (le cose del lavoro) o da quello lavanda (con il calendario che scandiva i viaggi). C’era sempre qualcosa da fare e quella babilonia di impegni mi rendeva euforica, un po’ ansiosa e poi tornavo euforica perché voleva dire che andava tutto bene. Sicuri? Sinceramente non lo so più: la pandemia mi ha insegnato l’arte di rallentare, di ascoltarmi, di prendermi i miei tempi e lasciar parlare le mie ansie per poterle sconfiggere come quella – diciamo non del tutto trascurabile per una freelance – dei progetti che saltano e delle fatture che non escono (e ovviamente non entrano nel tuo conto corrente. Ho capito che ho il sacrosanto diritto di fermarmi.
Quella necessità di reboot

Forse potete dire che per me possa essere semplice: alla veneranda età di 45 anni non sono madre, non ho voluto figli e ho pensato sempre molto a me. In tante situazioni. Egoista? Non credo: non è una questione di egoismo ma di scelte. Ci sono donne capaci di essere non-madri eppure di non riservare nulla per sé. Prima della pandemia, era così per me: mi riservavo solo il diritto di fare il mio personale reboot e nemmeno così tanto bene. Ora, invece, ho capito: mi devo ascoltare e assecondare. Cosa vuol dire? Dormire se e quando ho sonno, mangiare se e quando ho fame, staccare la testa e non sentirmi in colpa se passo da una serie assurda all’altra, addormentandomi nel mezzo senza ricordarmi di poterla stoppare. L’altro giorno mi sono addormentata guardando una protagonista bionda e mi sono svegliata con la stessa protagonista che indossava una parrucca castana mentre era in prigione. Come ci sarà finita? Non lo saprò mai. Questo è il piacere che deriva dal sacrosanto diritto al reboot: fregarsene di come debbano andare le cose. Occorre, però, porre una super condizione: il nostro momento di riavvio del sistema non dev’essere un torto fatto ad altri o un’operazione di ghosting. Possiamo imparare a prenderci cura di noi nel modo giusto senza essere scortesi con gli altri e mancare loro di rispetto. Cosa si fa? Si parla.
La sacrosanta esigenza di metterci al centro

Uno dei miei tatuaggio – e non ne faccio mistero da quando l’ho fatto – dice “In der Mitte, ich” e questo non esclude nessun tipo di rapporto della mia vita. Quando la mia testa ha bisogno di silenzio e l’anima di respiro, io mi metto al centro anche perché voglio restare al mio meglio anche per chi mi sta accanto. Meglio 3 giorni da ameba che tutto il resto arrancando facendo finta che vada tutto bene. Meglio dire “guarda, non ce la faccio per qualche giorno e sorridere stanca” che mentire. Perché non c’è nulla di male in uno stop. Perché non c’è nulla di male nel sentirsi esausti. Perché non si è meno bravi a stare al mondo se si cancellano gli impegni blu, rosa e viola dal calendario e si vegeta. Come se l’anima galleggiasse sull’acqua, con le orecchie appena sotto il livello dell’acqua, con i suoni ovattati e gli occhi puntati verso la vastità del cielo. Per davvero, va bene così.
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