
Inizio questo post con un ricordo in testa: ci sono io, in auto con i miei, che salgo sull’Altopiano di Asiago in un giorno d’inverno. Quando succedeva – abbiamo passato alcuni periodi natalizi lì – io facevo la stessa cosa che mi capitava di fare quando andavo al mare: guardavo fuori dal finestrino e mi riempivo gli occhi di immagini. Con noi, in auto, c’era mia nonna Cecilia che non si stancava di raccontarmi che, da quelle parti (che a me sembravano lontanissime ma erano molto vicine a casa), un tempo si andava per fare la convalescenza perché si respirava l’aria buona. La cosa era comune nelle mie zone. Il ricordo finisce lì e facciamo un salto temporale, giusto per trovarne un altro. Ci sono io, in Svizzera – ad Andeer – che leggo Thomas Mann e penso al sanatorio di Davos descritto dall’autore. Fine del secondo ricordo. Viaggiamo fino ai giorni nostri: ci sono sempre io che leggo un articolo che parla di Quiet Quitting e penso a quanto mi servirebbe, ora, un sanatorio. Non tanto per i polmoni, quanto per recuperare il senno. Come Orlando. Vi sembra tutto incasinato? Forse, ma ora vi spiego.
Come Thomas Mann

C’era un tempo il sanatorio. Brutto posto se ci pensiamo. Vi è mai capitato di vederne uno o di ammirare una struttura dove un tempo c’era un sanatorio? Alcune sono diventati alberghi e hanno conquistato il lusso. Luoghi, invece, come quelli descritti da Thomas Mann, hanno sempre avuto un certo lusso nelle loro cellule. Al sanatorio si andava per guarire dalla tisi o dopo una malattia importante. Per fare la convalescenza. Il tutto, poi si traduceva in riposo stesi su dei lettini, magari esposti al sole e all’aria di montagna. Pensavo a questo nei giorni scorsi quando – lo ammetto – mi sono sentita tutto tranne che bene. Mi sono messa (leggete: sono stata messa) a riposo assoluto e la cosa mi ha fatto benissimo. Sicché ho pensato che, per davvero, ci vorrebbero ancora dei posti – magari più sereni e belli di un sanatorio – dove poter mollare il mondo e presentarsi dicendo “ho bisogno di riposo, posso stare qui?“. E loro, ovviamente, ti accolgono. Mi sono immaginata, anziché sul mio divano blu, in un posto in montagna dove poter respirare aria buona, sentire il sole sulla pelle e, perché no, ammirare anche un panorama spettacolare. Nel sentirmi meglio mi sono detta davvero di essere una di quelle persone che sottovalutano il valore del riposo. Quelle persone che pensano che concedersi un giorno sia sufficiente e, invece, è solo la punta dell’iceberg. E qui arriviamo al Quiet Quitting.
Diritti Quiet Quitting

Cito dall’articolo che ho letto: “si tratta della decisione di non andare oltre le proprie mansioni minime, rifiutandosi, per esempio, di rispondere alle email dopo l’orario di lavoro o nel fine settimana, oppure di accettare straordinari e incarichi che esulano dalla normale attività quotidiana”. Provate a leggere la frase ad alta voce per un momento: non c’è qualcosa che stona? Per correttezza vi dico che la definizione di Quiet Quitting arriva da un americano, dove la realtà lavorativa è diversa. Là si appartiene al lavoro che si fa. Ho totale rispetto per chi ha scritto questo articolo e per la società di cui fa parte ma credo, per davvero, che ci sia qualcosa che non va. Io – non l’ho mai nascosto – sono una stakanovista che spesso va oltre le sue capacità. Quello che non va, in quella frase, è l’idea che essere disponibili nei weekend o rispondere alla sera o, ancora peggio, portare a termine un incarico che esula dalle proprie mansioni sia normale. Dunque, io sono cresciuta con una mamma che faceva attività sindacale, ma per davvero siamo arrivati al punto di dover trovare una definizione a un qualcosa che, per contro, sarebbe già un diritto acquisito? Sarò drastica ma mi viene in mente il newspeak di 1984 dove hate veniva sostituito da un-love, neutralizzando completamente il concetto del primo verbo. Non è che parlando di Quiet Quitting ci si dimentichi, in realtà, di una totale e conclamata normalità lavorativa? Ve lo ripeto: io lavoro di sabato, domenica, nelle feste e chi se ne frega. Però decido io di farlo e, nel caso non volessi, non alzo un dito. Per contro potrei prendermi la libertà di farmi un giro il martedì, conscia del fatto che consegnerò il lavoro in tempo e non sarà quel martedì a rendermi una freelance cattiva e brutta.
Cosa voglio dire con questo post?
Come scrivevo in altri momenti estivi, sono stanca e stufa del mondo e mi sembra di aver solo voglia di mandare a quel paese tutti. Anzi, voglio andare io a quel paese, ritirarmi a fare la mia convalescenza per il piede matto in luoghi che, con tutta probabilità, vi racconterò domani. Questa doveva essere l’estate in cui avrei messo un anellino d’argento sul terzo dito proprio del mio piede destro. Non so perché lì ma me lo figuro lì. Me lo sono comprato in pieno inverno e l’ho riposto con cura vicino all’anello che porto su Goldfinger. Entrambi rappresentano una piuma e mi ricordano il mio scrivere, il mio voler volare con il vento, come il vento. Porto l’anello per dita della mano su Goldfinger non perché voglia ricordare quel momento ma per come tengo quel dito quando scrivo. Ha un atteggiamento – quel dito – tutto suo e sembra spingere più di altri sulla tastiera. Comanda lui. Mi sarebbe piaciuto che anche il piede destro avesse comandato i miei passi. Magari faccio ancora in tempo a metterlo prima di portare le scarpe chiuse. Magari lo porto al mare, chi lo sa. Ah, già, cosa voglio dire con questo post? Non credo nulla di preciso. Mi ha fatto ragionare sta cosa del Quiet Quitting, sta cosa di avere la possibilità di fare la convalescente e di aver quasi paura di esserlo. Ecco. Ovviamente tutto questo mi ha fatto venire in mente un post a tema viaggio che arriverà domani. Quindi, stay tuned!
La foto senza caption è © Giovy Malfiori – riproduzione vietata.
E qaundo si avrebbe bisogno del Quit quitting non dal lavoro ma dalla propria vita? Dalla propria routine? Come si fa?
Secondo me dovrebbero esserci dei luoghi “sanatorio” per ogni situazione della nostra vita. Lo diceva anche Virginia Woolf in “Una stanza tutta per sé”.
luoghi “sanatorio” sarebbero molto utili, e dovrebbero essere prescritti proprio per chi non riesce a staccare mai (a me viene in mente mia zia, instancabile all’estremo). Perché il riposo è necessario al rendere, a farci essere umani più appagati e (anche) produttivi.
Parlo da dipendente e ti dico che sì, purtroppo quella definizione per quanto suoni stonata racconta molto bene la realtà contemporanea del mondo del lavoro (e non solo americana). Se vuoi approfondire la questione ti consiglio “il lavoro non ti ama” (una lettura che fa male ma serve).
Io, per fortuna, riesco ancora a ritagliarmi spazi miei anche di riposo assoluto. Però è sempre più difficile nel mondo di oggi dove veniamo tirati per la giacchetta da tutti e ci sentiamo sempre in colpa per non dedicare abbasta tempo a: lavoro, amici, famiglia, ecc.. ma mai a noi stessi
Grazie mille per il tuo commento, Elena. E per il consiglio del libro.
Viviamo in un tempo che corre e dove ognuno dovrebbe crearsi un proprio “sanatorio” mentale per rallentare.