
Ci ho preso gusto con questo genere di titoli, vero? Scherzi a parte, stavo cercando di mettere ordine in un po’ di pensieri. Hanno occupato la mia testa nei giorni scorsi e vanno dalla morte della Regina Elisabetta alla mia pseudo-convalescenza, ovvero quei momenti passati sul divano a riposo forzato, come lo scorso weekend. Ho capito di bramare il riposo da un lato e di non riuscire a essere completamente a mio agio per tanto tempo a riposo. Mi sento un’ameba, mi sento inutile. Ed è proprio per questo che mi sono messa a pensare. Pensare non provoca dolore al mio piede matto e, quindi, ben venga. Ho passato in rassegna i periodi storici in cui è vissuta la Regina Elisabetta e ho esaminato – sempre dentro la mia testa – come si comunicava al tempo. Deformazione professionale, scusate. Quando sono approdata, nel mio ragionare, ai giorni nostri, ho compreso quanto la normalità sia deprecata e quanto il suo esatto contrario (inteso come qualcosa di artefatto) sia, invece, ostentato. “Quel che hanno ostentano e tutto il resto invidiano“, diceva qualcuno. Capito qualcosa? Adesso vi spiego.
Serie tv consigliata: Mad Men

C’è una serie tv che chiunque si occupi, in una qualche mansione, di comunicazione dovrebbe vedere se non imparare a memoria: si tratta di Mad Men, serie americana che racconta la vita non di gente pazza ma di gente che lavora in Madison Avenue, a New York. Tra la fine degli Anni ’50 e l’inizio del decennio successivo, lì si trovavano le sedi di tutte le più grandi agenzie pubblicitarie americane. Si ispira. almeno marginalmente alla vita di David Ogilvy. Mad Men ha vari livelli di visione e lettura: la si può guardare in stile “soap opera”, per stare dietro a tutti gli intrighi che accadono. D’altro canto, la si può guardare come un ritratto di una società in profonda evoluzione: le vicende della serie arrivano fino all’alba del 1968, anno che cambiò moltissimo, non solo nel mondo dei costumi ma in quello culturale per antonomasia. C’è ancora un altro livello, uno più per addetti ai lavori: c’è la storia di alcune campagne pubblicitarie (vere) che hanno segnato il modo di comunicare. Nei primi tempi della pubblicità, si cercava di vendere un sogno che doveva diventare l’oggetto del desiderio del consumatore. Lungi da me fare uno spiegone sul marketing ma, in parte, è ancora così. Cambiano le modalità. Oltre a questo, ai giorni nostri, non è più l’eccezione ad attirare: è la riconoscibilità della propria normalità apparente. Famiglie felici, situazioni mai complicate, soluzioni a portata di mano: questa dovrebbe essere la nostra normalità. Mago di questa modalità fu, fin dagli Anni ’80, il Signor Armando Testa, inventore di un sacco di pubblicità con le quali siamo cresciute. Ve lo ricordate l’ippopotamo che cambiava i pannolini? O la pubblicità di una famosissima pasta italiana? Quella con la musica inconfondibile, per intenderci. La pubblicità propinata dal Signor Testa – che resta comunque un luminare della comunicazione – doveva raccontare una certa normalità.
Quando la normalità è meglio di qualsiasi altra cosa
E ora veniamo a noi. Nel mio sentirmi inutile e totalmente un’ameba sul divano, mi sono messa a guardare un sacco di social con un certo maggiore interesse. Scorri di qua, scorri di là, mi ritrovavo – e mannaggia agli algoritmi come sono ora – a osservare reel su reel, pronti a raccontare realtà fantasiose. Lo so: è un ossimoro in piena regola. Ho visto un sacco di contenuti capaci di catturare gli occhi ma mi sono chiesta quanto, di ciò che vedessi, fosse reale e fosse, quindi, raggiungibile anche da altri nello stesso modo in cui mi era stato proposto. Come blogger, ho scelto coscientemente di mostrare il mondo così come lo vedo io, attraverso le lenti dei miei occhiali da ipermetrope e con i capelli sconvolti. Un giorno – ero a Bristol, lo ricordo benissimo – una persona mi scrisse per dirmi di aver iniziato a seguirmi perché viaggiavo in modo normale. Perché mi mostravo con le guance rosse per il freddo e i capelli sconvolti dal vento. Questa sorta di messaggio mi è arrivato altre volte. Non che ne avessi bisogno, ma mi sono convinta quanto la normalità possa essere il mio leit motiv. Ora non posso fare a meno di chiedermi se mostrare un mondo artefatto – cosa che sui social fa fighissimo – sia una scelta che paghi oppure no. E poi, sai che fatica essere sempre artefatti? Io ho il pigiama coi gufi e le occhiaie appena mi alzo; non ho mai fatto colazione in accappatoio bianco seduta sul letto (ma ci vedete? Io verso tutto sulle coperte e, come minimo, mi cade il pane con la marmellata dalla parte della marmellata). Quindi non posso fare a meno di chiedermi quando la normalità abbia iniziato a fare così schifo.
Dove le bugie hanno le gambe lunghe

Raccontare un mondo sempre figo, sempre bello, sempre lussuoso e sempre in tinta con quello che si indossa non è un modo socialmente accettabile – come direbbe Sheldon Cooper – per dire bugie? Non so voi, ma a me da piccola hanno insegnato che le bugie non si dicono. Il mondo non è sempre bello, la vita non è sempre facile e anche i viaggi hanno i loro contro, in mezzo a miliardi di pro. Sto scrivendo questo probabilmente per una mia personale propensione verso la verità. Ho provato – lo giuro – a intrattenermi nel guardare il mondo visto da altri. Sarà che mi manca un po’ di mondo reale in questi giorni. Sarà che sono stufa di sentirmi un’ameba. Sarà che dovevo passare settembre su e giù dagli aerei e, invece, ho fatto su e giù dal divano e ho fatto trekking dal divano al letto anziché essere in giro per la Sassonia e o lungo la costa vicino a Portsmouth. Insomma… giorni di scazzo mi hanno fatto riflettere su quanto io sia legata alla normalità, su quanto ami metterla al centro del mio modo di raccontare e quanto creda che nulla di artefatto mi appartenga. Domanda: sbaglio? Le bugie, sui social, hanno le gambe lunghe anziché corte?
La foto senza caption è © Giovy Malfiori – riproduzione vietata.
Come te sono un po’ stufa dei contenuti artefatti creati solo per i social. Non mi raccontano niente e in alcuni casi sono anche un po’ ridicoli. Per fortuna stiamo superando con fatica il periodo delle foto in palette, con destinazioni che di orange & teal non avevano nulla, ma ora siamo sommersi da reel pieni di (troppo) entusiasmo.
Online mi manca lo stupore e l’emozione di un viaggio vero. Sui social sembra di nuovo tutto uguale e appiattito verso un certo tipo di comunicazione acchiappalike, ma così ogni destinazione sembra uguale alle altre.
Io ne ho visti molti (di contenuti artefatti) negli ultimi giorni, così come cose create ad hoc per sfruttare al massimo il trend sulla morte della Regina.
Io credo ci siano ancora persone capaci di raccontare il mondo nella sua bellissima realtà. Il fatto è che sono delle mosche bianche in un mondo che, per davvero, è tutto omologazione.
Viva la normalità! Io sono una maestra elementare normale, che da sempre insegna a leggere e scrivere. Vedo nei social le mie colleghe impegnate a proporre ai bambini mille attività più una. Molto belle, per carità, ma prendono un sacco di tempo. Quando impararono a mettere le acca al posto giusto?
Credo che insegnare ad apprezzare la normalità sia davvero qualcosa di speciale. Anche questo è un ossimoro, lo so.