
Stamattina (ovvero ieri rispetto a quando state leggendo), dalla mia playlist su Spotify è uscita una canzone particolare, complice la funzione shuffle. Ci sono dei giorni in cui io amo lo shuffle. Questa canzone è opera di un gruppo spagnolo Anni ’80 che si chiama Dinarama. La loro cantante era Alaska, al secolo Maria Olvido Gara, Lei è una persona e un personaggio pazzesco. Molto fuori dalle righe, da sempre. La canzone si intitola A quien le importa e io – manco a dirlo – la adoro. Si tratta di un vero e proprio inno alla propria indipendenza. Ho pensato a lungo, dopo averla ascoltata, a quanta musica sia ambasciatrice dell’indipendenza e della libertà. Gli ultimi sono stati giorni – a livello di avvenimenti internazionali – in cui il diritto a decidere di se stessi è stato altamente castrato. Apparentemente, come ci scrivevamo via WhatsApp io e la mia migliore amica giorni fa, l‘Europa sembra davvero – al giorno d’oggi – il luogo più democratico dove vivere. Dove voglio arrivare con questo post? Ve lo spiego subito.
Non sono di nessuno
A quien le importa è un brano del 1986, con relativi rifacimenti (anche troppo trash) successivi al fatto che venisse portato sul palco da Alaska. Ripeto: Alaska è sempre stata fuori dalle righe e questo brano le è sempre stato a meraviglia addosso. Io amo Alaska e il suo essere eccessiva. La canzone dice:
Si soy distinta a ellos
No soy de nadie
No tengo dueño
Non sono di nessuno. Non ho padrone. Era la versione più Anni ’80 di quello che sarebbe diventato, anni dopo, il mio mantra: I am mine. Quando ero piccola, mia nonna Cecilia mi raccontava della prima volta che è andata a votare. Mia nonna aveva solo la Quinta Elementare ma si era fatta paladina della sua indipendenza quando, negli Anni ’30, ha lasciato la casa di suo suocero perché lui non voleva che lei lavorasse. La voleva in casa, silente, pronta a obbedire. Ma lei ha detto no. Mia madre – e non ne ho mai fatto mistero – ha sfidato l’opinione di un piccolo paese che giocava a fare la grande città quando ha mollato il lavoro più certo del mondo, nel posto più desiderato, per diventare infermiera. Con due figli piccoli a casa e con il loro padre sempre in giro. Mio padre, per la cronaca. Ma io non c’ero ancora. Mia madre ha pensato bene che io non dovessi nascere. Lo ha fatto in un momento in cui il diritto di abortire, in Italia, non era ancora sancito. Io – come potete ben vedere – sono qui 44 anni (e tot mesi) dopo quel momento. Un momento in cui lei ha esercitato due scelte: la prima è stata quella di chiedere di interrompere la gravidanza. Lei poteva perché aveva un lavoro a rischio, era sposata e aveva già dei figli. La seconda scelta è stata quella di alzarsi da quella sedia davanti all’ambulatorio di ginecologia e andare a casa. Perché l’ha fatto? Quando avevo 22 anni mi raccontò tutto. Io sapevo di essere arrivata per caso ma non sapevo del suo desiderio di abortire. Lei si alzò da quella sedia perché io iniziai a farle male. Aveva mal di pancia. Ero io. Io che esercitavo il mio diritto di scelta ancora in grembo. “Eri così ostinata“, mi disse, “che non ho potuto non ascoltarti“. Immaginatevi me, a 22 anni, seduta sul divano con mia mamma che, tra una chiacchiera banale e l’altra, mi racconta questa cosa.
Questione di poter scegliere

Come mi sono sentita? All’inizio, lo ammetto, un po’ persa. Poi ho capito: sia la prima che la seconda scelta. Soprattutto la prima, direi. Su di me, in tante cose, vince sempre la razionalità e lei aveva fatto una scelta razionale. Sembrava non se la sentisse di ricominciare tutto da capo. I miei fratelli avevano 10 e 11 anni, il peggio era passato. Perché ricominciare? Per merito della mia ostinazione. Così continuava a dirmi. E io, ostinata lo sono da quel momento. A conti fatti sarà stata l’estate del 1977. Io ho visto la luce di questo mondo il 19 gennaio 1978 ma avevo già iniziato a vivere mesi prima. Mia madre mi disse che lei mi percepì come già grande perché avevo scelto. Il giorno di quel racconto, lo ammetto, piansi un po’. Più che altro perché mi sentii ancora più onorata di essere al mondo e di continuare a essere ostinata. Vivere in direzione ostinata e contraria – come ben direbbe De André – è probabilmente sinonimo di esercitare il proprio potere di scelta. Non essere contro a chissà che governo o chissà che principio: è essere capaci e intitolati a esercitare una scelta. E chi non sceglie, non c’è. Come sarebbe successo a me quel lontano giorno. [Piccola curiosità editoriale: vedete la foto sopra questo paragrafo? L’ho presa da Unsplash, come ogni tanto mi capita. L’ho scelta perché io ci sono passata davvero dal bivio che indica]
… the land of free

Oggi sono qui, è l’estate del 2022, ne ho vissute di ogni e chissà quante ne vedrò. Mi madre mi ha sempre detto una cosa, probabilmente riversando su di me le speranze che aveva per lei: scegli tu. Il giorno che decisi di iniziare a prendere la pillola (ero maggiorenne, eh, tanto per evitare polemiche) lei prese una bottiglia di spumante e la aprì davanti a me. “Te fe ben“, mi disse in dialetto veneto. Aggiunse, poi, che non ero costretta a dirlo alla persona con cui stavo, o meglio… con cui andavo. Perché mia mamma era avanti e sapeva benissimo che non è che la si dà via (sì, quella cosa là) solo per amore. Ma anche per diletto. Diletto coerente, cosciente, libero, consapevole. E questo non ti rende una poco di buono: basta usare la testa. Già, lei stappò la bottiglia con me e mi disse “adesso sono più felice“. Avete presente quelle mamme tutte apprensione e “mia figlia è una brava ragazza?” Ecco. Non era la mia. E lei mi ha sempre considerato una brava ragazza perché responsabile e libera. Libera, così mi ha tirata su perché lei ha lottato come una dannata per certi diritti dentro ai quali io sono nata. Io sono nata in un mondo in cui una donna votava, lavorava, poteva decidere se avere o non avere figli. Legalmente, in sicurezza, in ospedale. Malgrado in Italia esista quella cosa assurda, se applicata a un medico che ti prescrive contraccettivi senza remore, che si chiama “obiezione di coscienza“, nel nostro paese c’è un diritto che, al momento, è lì sicuro, sancito, applicabile. Cosa che non accade più in the land of the free and the home of the brave.
La Atwood è una veggente

Margaret Atwood, nel 1985, pubblicò un romanzo distopico dal titolo “Il Racconto dell’Ancella“. In inglese è The Handmaid’s Tale e vi ricorderà una recente serie tv, tratta proprio dal romanzo. La Atwood scrisse il romanzo nel 1984 (pubblicandolo l’anno dopo), anno che per molte persone era un punto di riferimento per via di un altro romanzo potente: 1984 di Orwell. Un po’ come se fosse una catena: Orwell nel 1948 immaginava come saremmo stati nel 1984. La Atwood si immaginava il futuro prossimo e vedeva le donne perdere la loro identità al punto da essere considerate incubatrici umane. Come se questo non bastasse, la perdita di identità passava attraverso la sottrazione del nome. La protagonista si chiama DiFred perché il suo capo – quello per cui dovrà mettere al mondo dei figli – si chiama Fred. Non vi ricorda, vagamente, il fatto di cambiare cognome una volta sposate? Ci sono nazioni, anche molto vicine a noi, in cui è ancora prassi. Fa paura pensare a questo romanzo ora e fa paura guardare la serie tv. Ciò che sta succedendo negli Stati Uniti decreta un precedente pericoloso al quale, però, occorre sempre pensare: nessun diritto è eterno. Un diritto va conquistato e poi va mantenuto credendoci, raccontandolo nella sua importanza. Ribadisco un concetto che mi è molto caro: sancire un diritto, dal punto di vista legislativo, non ha implicazioni morali o religiose. Lo stato è laico (dove lo è) e come tale deve agire. Sancire il diritto di abortire non significa spingere le donne a farlo. Significa garantire una scelta. Che siano poi le varie confessioni religiose a lottare per la vita, come dicono loro. La religione agisce sulla morale, non sulla vita pubblica che deve essere garantita dalle leggi. Avere la possibilità di scegliere non significa scegliere una strada o l’altra. Significa poterlo fare. I verbi modali (volere, potere, dovere) in linguistica sono dei capisaldi. Qui è il “poterlo” a fare la differenza. Un paese civile deve garantire la scelta.
Maledetti 6 bigotti

Quello che mi viene da dire è che mi sento totalmente solidale con tutte le donne americane, soprattutto quelle che vivono in stati che – ora – non possono più garantire loro di scegliere. Guccini, in riferimento a tutt’altra vicenda, cantava:
Paura del diverso e del contrario, di chi lotta per cambiare
Paura delle idee di gente libera, che soffre, sbaglia e spera
Nazione di bigotti! …
La canzone continuava con la preghiera di lasciar tornare la protagonista. Se dovessi e potessi (sempre verbi modali) riscrivere quel testo, io non direi “nazione di bigotti” ma “Maledetti 6 bigotti“, capaci di avere non so quante armi a casa perché il Secondo Emendamento è un diritto costituzionale e non va toccato. Ci sono luoghi negli Stati Uniti che amo e ho amato moltissimo. Posti in cui tornerei di corsa e che non mi fermerei mai di raccontare. Il difficile, tante volte, è questo: parlare di posti grandiosi guidati da gente insulsa. O sulle leggi sulle quali vigila qualcuno di insulso che non vale tutti i soldi spesi per laurearsi e conquistarsi una posizione. Quello che mi viene da dire oggi è che, se mia madre fosse stata viva, si sarebbe incazzata come non so cosa per quella decisione. È vero, c’è un oceano di mezzo e l’Italia non è gli USA ma il precedente che si è creato è davvero grave, potente, pericoloso. Credo che non smettere di parlarne sia la cosa giusta. Non smettere di far sentire la propria voce sia la cosa giusta. Credo che continuare a dire Decido io sia la cosa giusta. Credo che fermarsi un attimo e riguardare alla storia delle nostre mamme, nonne o zie del passato sia la cosa giusta. Voglio rileggere “Il Racconto dell’Ancella” tra qualche anno e dirmi che, in fondo, quella sì che è solo una storia inventata.
La foto senza caption è © Giovy Malfiori – riproduzione vietata.
Bellissimo post. Niente altro da dire.
Grazie mille, Elena.
Sto ricevendo un sacco di parole balle da parte di molte donne. Sarei curiosa di sapere che cosa possa pensarne un uomo.
Mi commuovi spesso e ancora di più trovi le parole che ho nascoste nella confusione di quelle emozioni.
❤️
E io mi commuovo per quanto ti sento sempre vicina. ❤️