
At last. In due anni e mezzo di pandemia – non ancora finita, lo ricordo – tante cose sono cambiate. Tante cose sono sparite dalla mia vita, lasciando il posto a tanti punti di domanda e quella sensazione che mi faceva chiedere “ma riuscirò ancora a fare quella cosa?” oppure “sarò ancora capace?“. I viaggi stanno ripartendo con un ritmo che non mi aspettavo. La socialità è tornata nella mia vita e non è più successo che sia rimasta 5 mesi senza vedere un essere umano dal vivo. Mancava una cosa sola: la musica dal vivo. L’ultimo pezzo del puzzle, quello che fa più “clic” di tutti, è andato a posto proprio domenica. La prima cosa che mi viene da dire è di essere arrivata alla chiusura del cerchio: è sicuramente vero ma la vita è cambiata. Eccome…
In the long run…
Fa caldo. Domenica avevo un sorriso che non vedevo da tempo sul mio viso. Qualcuno al quale voglio molto bene mi ha scritto su Instagram, in risposta a un mio piccolo video, dicendomi “come sei bella“. E io ho sorriso. Ho sorriso perché mi vedo bella anch’io in certi momenti, anche se ho la pressione sotto le scarpe e mille preoccupazioni nell’anima. Bella perché è come se la vita parlasse per me, di me, con me, dentro di me. Domenica mattina era caldo, tanto. Io attendevo il bus che mi avrebbe condotta a Firenze ed era come se ci fosse stata una partita di ping-pong dentro al mio cuore: da un lato, la voglia di vivere ciò che mi attendeva quel giorno. Dall’altro la preoccupazione per una giornata con delle dinamiche che non vivevo da troppo tempo. Mentre ero lì che aspettavo il bus, un vento caldo mi ha avvolta e io mi sono messa a passare in rassegna tutto quello che è stata la mia vita da maggio del 2019 al 19 giugno 2022. Tre anni che non avrei mai immaginato. Ora penso ai Led Zeppelin che dicono “in the long run, there’s still time to change the road you’re on“.
It’s a fragile thing this life we lead…
In principio c’è stata la realizzazione di un sogno: il mio viaggio a Seattle. È stato come se, in quel momento, avessi aperto la scatola di un puzzle da miliardi di pezzi e avessi sparso tutte quelle tessere dalle forme strane su un tavolo. Da lì, ho iniziato a rimetterle in ordine, non so nemmeno io come. A Seattle ho comprato una maglietta che amo all’infinito: è rosa e c’è scritto – per l’appunto – Seattle. Quando la indosso, risento un po’ le sensazioni di quel viaggio e quelle che lo hanno preceduto: ci sono io che apro l’armadio, guardo i vestiti da portare con me tra Canada e Stati Uniti e, nel frattempo, mi chiedo: dove sei Giovy? È stata una piccola presa di coscienza che si è tradotta, in termini pratici, con l’acquisto di quella maglietta in un negozio di Seattle. Dopo il viaggio, l’ho riposta nell’armadio e, riaprendolo, ci ho visto di nuovo dentro un pezzo di me. La canzone per questo paragrafo è quella che fa “Oh, it’s a fragile thing, this life we lead If I think too much, I can get over…“. Ovvero Sirens dei Pearl Jam.
Where is my mind…
E poi? Beh, poi è iniziato a cambiare tanto in me ma ci è voluta la pandemia a farmene rendere conto. Un po’ come quando ti tolgono ogni certezza e tu te ne resti lì, impietrito, a chiederti dove sia finita la tua vita, dove sia finita la tua mente. Un po’ come cantano i Pixies: where is my mind. Un po’ tante cose. Quanti un po’ ho scritto? A forza di un pezzo di qua e un pezzo di là, le cose si ammucchiano e ti si presentano davanti agli occhi come un macigno grande. Tu vorresti solo scappare. Così sono davvero uscita dalla porta con tre borse e sono tornata quasi 4 mesi dopo, con le stesse tre borse ma con una Giovy diversa. Non senza mille dolori di tanti generi diverse e non so quante ore di pianto accumulate, mi sono resa conto che l’unica cosa che potevo fare – in un momento storico dove tutto ciò che professionalmente mi aveva connotato era fermo – era occuparmi di me. Mai decisione fu stata più difficile da prendere e mai fu più giusta. Mi sentivo come se facessi un torto a chiunque fosse mai stato nella mia vita. In realtà, facevo un torto solo a me a non occuparmi di ciò che ero. E di ciò che volevo tornare a essere. Per me è stata una fase di potatura, per usare un termine che renda l’idea. Potatura dolorosa, per quanto si possa credere il contrario. Una volta potata, sono tornata a crescere.
… and the first thing you want
Tornata a crescere, ho fatto i conti con qualcosa che non avevo mai vissuto: la solitudine. Badate bene, qui potrebbe entrare in gioco la linguista sfegatata che è in me. To be lonely e to be alone sono due concetti diversi. Io non mi sono mai sentita sola. Ora mi viene in mente How to fight loneliness di Wilco. Con quella canzone, ripenso ai 5 mesi e qualcosa in cui nessun essere umano ha varcato la mia porta. Nella mia mente – che, lo sapete, è capace di tante cose – non sarebbe mai stata in grado di immaginare uno scenario simile. Una delle cose che non sarei mai riuscita a inventare è ciò che ho provato: c’erano dei giorni in cui non aprivo mai la porta. Una volta per una settimana intera. È mai possibile, mi dicevo? Sì. È proprio vero che quando pensi di aver raggiunto un limite, in realtà lo scavalchi e vai verso il limite successivo. Un po’ come si fa con le salite in Umbria. Vai avanti così ad libitum, finché ti sembra di non farcela ma poi capisci che non solo puoi farcela: riesci anche a rafforzarti. Proprio come scrivevo alla fine del 2021, in quel periodo di solitudine, ho capito di essere capace di andare in pezzi per poi rinsaldarmi e essere più forte di prima. Ecco una cosa importante: ho imparato a cadere come mai avevo fatto… e non faccio riferimento a quando mi sono dilaniata le ginocchia.
Leading home from the edge of space…
E quindi? E quindi siamo arrivati all’ultimo click del puzzle. Eccolo lì l’ultimo pezzo, quello che hai quasi paura di apporre, pur morendo dalla voglia di farlo. Inserirlo al suo posto vuol dire completare l’opera. Perché, si sa, le cose hanno un inizio ma hanno soprattutto una fine. Trovano un senso di eternità nella loro evoluzione ma, nel momento in cui passano da uno stadio A a quello B, mutano e quindi – a modo loro – finiscono per trovare nuova vita, nuova linfa, un nuovo perché. Se dovessi riassumente in un solo concetto quello che i giorni da maggio 2019 a giugno 2022 mi hanno insegnato, credo sia proprio il capire che posso accettare l’evoluzione. Anzi, sono arrivata a desiderarla. Sono sempre io, ho tolto solo la corazza che avevo sopra di me. Una corazza che sembrava uno schermo di un cinema ma sotto la quale continuava a bollire la mia vera realtà. Il concerto di ieri è stato proprio come mettere l’ultimo pezzo del puzzle. Click. Messo. Fine. Alzo la testa e guardo avanti con una consapevolezza pazzesca, con una famiglia di persone che – nel frattempo – si sono rese presenza concreta nella mia vita e alle quali non vorrò mai rinunciare. Questo puzzle ha avuto 1124 pezzi. 1124 giorni che non avrei mai pensato di vivere. 26’976 ore: tanto ci è voluto. Shine like starlight, leading home from the edge of space, come canta Jerry Cantrell in Brighten.
A volte ritornano: il podcast

Ce l’ho fatta: finalmente ho registrato un nuovo episodio del podcast. Ci voleva. Ascoltatelo gratuitamente online!
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