Scrivo questo post quando, stranamente, cala la sera su di un lunedì un po’ pieno di intoppi. Scrivo questo post mentre guardo il termometro di casa mia e segna 27,9 gradi. Penso che oggi, mentre scrivo, sia il 23 maggio e, se questa è l’anticamera dell’estate, io non arriverò molto sana a settembre. Già, settembre. Ci pensavo l’altro giorno a settembre perché – lo spero con tutta me stessa – segnerà l’ennesimo ritorno sull’isola da dove sono appena tornata. Tornare, l’ho scritto molte volte, è fondamentale per la definizione stessa del viaggio. Altrimenti sarebbe una partenza. Non viaggio. Non sono la stessa cosa. Ieri mattina, sul mio profilo Instagram, ho postato la foto che fa da copertina a queste mie parole. Bevo un goccio d’acqua fresca. Ripenso a quella foto, alla Bretagna dove è stata scattata (ero all’inizio della Penisola di Quiberon) e penso alla canzone che mi ronzava – e ronza – in testa in quel momento: raggiungemmo quelle rive come stormo di gabbiani, con la strada del ritorno disegnata sulle mani…
Parola, suono, onda sonora
Ed è proprio da lì che voglio ripartire. L’altro giorno, poco prima di spegnere il telefono quando mi sono seduta al mio posto in aereo, ho fotografato uno dei miei tatuaggi nuovi, figli della primavera appena finita. Mio padre, appena mi ha vista un paio di settimane fa, mi ha guardato e mi ha fatto due domande. “A cosa servono quelle cose lì?“, riferendosi ai tatuaggi. Poi ha atteso qualche secondo e mi ha guardata in modo interrogativo, proprio come qualcuno che non capisce le ragioni dell’altro. Io dovevo ancora parlare e lui se n’è uscito con la seconda domanda: “vanno via, vero?“. Ricordo ancora quella domanda quando mi vide, a 16 anni (e col permesso di mia madre che era venuta da tatuatore con me), col mio primo tatuaggio. Va via, vero? No, papà. Non va via. Poi mi sono guardata allo specchio e non gli ho risposto. Alla prima domanda intendo. Io so le ragioni delle parole che mi porterò addosso per sempre. Lì, sulla mia pelle, c’è scritto νόστος, ritorno in greco antico. Una parola che non è suono e musica. E basta. Una parola che è suono, musica, onda sonora, onda mentale, concetto circolare dentro il quale scrivo la mia vita. Ho riflettuto un po’ prima di addormentarmi sull’aereo: ho pensato e ripensato al fatto che io continui a considerarmi una persona che non contempla le cose finite. Tutto è infinito per me. Anch’io lo sono. Lo sappiamo tutti che non è vero e, prima o poi lo capirò. Ma non è ora quel giorno. Benché io la pensi così, so che esiste il ritorno. So che voglio il ritorno. Un controsenso, non trovate? Amo così tanto il concetto di ritorno da essermelo impresso addosso per sempre. Continuando con quella canzone “Oh ragazza nel cui sguardo ho visto il mare, Me ne vado e non ti voglio salutare. E ti lascio mentre ancora non ho pace, con la parola che non si traduce..”
Je suis bouleversée
Di pace, in realtà, ne avevo. Ne ho ho. E ne avrò. Ho vissuto questo viaggio a Tenerife (non mi piace dire “ultimo”. Dato che credo nelle cose infinite, non ci sarà mai un ultimo viaggio. No.) con una pace addosso che mi ha sorpresa. Solitamente, arrivavo sull’isola in subbuglio e me ne andavo con un subbuglio nuovo. Quando penso alla parola italiana subbuglio, mi viene in mente un verbo francese che adoro: bouleverser. È un concetto particolare: si potrebbe tradurre con bollire o sobbollire perché designa l’atto compiuto dalle bolle in una pentola ma per me è di più. Come stai, Giovy, al ritorno da Tenerife? Bouleversée, avrei detto. Sto giro ero carica come una molla. Quelle bolle sono diventate pura energia. Mi spiego meglio: lo sono sempre state ma io, sto giro, le ho sentite davvero diverse. Così diverse da essere riuscita a reggere la forza del vulcano senza sbarellare. Restando pur sempre l’oro in mezzo a loro. Dove “loro” intende l’oceano e il vulcano. E sul vulcano c’erano le ginestre in fiore. Sarà stato per quello?
… il sale lo conosco bene
Quella canzone continua dicendo Oh scogliera che baciasti il temporale, dentro gli occhi miei rimane il sale. E io il sale lo conosco bene. Scelgo la via che meno mi conviene... Ok, quella canzone parla di Bretagna ma a me piace da matti poterla abbinare a molti dei miei viaggi. E io il sale lo conosco bene anche se sono una Giovy nata in montagna e che ora vive in pianura, distante dal mare. Distante da quel sale. Ma io il sale lo conosco bene. Ce l’ho avuto sulla pelle e tra i capelli tutti i giorni. Assieme al vento, creava su di me qualcosa di unico. Un misto tra qualcosa di protettivo e una polvere magica che mi spingeva tra le braccia della vita ancora di più di quello che sono capace di solito. Questa è la forza di quelle bolle. L’oceano è pieno di bolle, di onde che fanno le bolle. Questa è la forza di quel viaggio. Questa è quella forza che si scatena solo quando torni, perché hai bisogno di pensarla un po’ da distante, per amarla ancora di più. Tornate, sempre.
Tutte le foto sono © Giovy Malfiori – riproduzione vietata.
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