
Lo sapete quanto mi piaccia raccontarvi dei progetti delle persone che stimo e non potevo di certo non raccontarvi del libro scritto da Paolo Giuseppe Alessio, dove Paolo è il primo nome e Alessio è il cognome. Giuseppe se ne sta lì a fare da secondo nome. Il libro in questione si intitola La Rabbia e approda su questo mondo per raccontare una storia – che, diciamolo pure, è un noir ambientato a Torino – che vede la Rabbia come un protagonista nemmeno troppo nascosto e davvero presente. Di cosa parla? Ho intervistato Paolo. Ce lo racconta lui.
Ciao Paolo, raccontaci in poche parole chi sei.
Ciao Giovy, grazie per questa intervista. Credo di essere soprattutto una domanda che cerca una risposta, ecco come mi definirei. A parte questo, lavoro con passione nel settore dell’editoria turistica, ho una sudata laurea in filosofia teoretica, un paio di master ormai probabilmente superati. Soprattutto, ho una moglie e una figlia da crescere. Beppe Fenoglio ti avrebbe risposto con asciuttezza maggiore, come fece quando Calvino gli pose la stessa domanda: “Oggi, purtroppo, uno dei procuratori di una nota ditta enologica. Credo sia tutto qui. Ti basta, no? Mi chiedi una fotografia. Ora, sono sette anni circa che non mi faccio fotografare.”
Hai scritto una storia che hai intitolato “La Rabbia”: com’è nata e come mai, tra tutte le emozioni umane, hai scelto questa?
Ho voluto provare a scrivere una storia divertente e intrigante, un romanzo breve con cui trascorrere un po’ di tempo a spasso per una città bellissima, dialogando con personaggi simpatici e commoventi (beh, non proprio tutti!). Inoltre, ho voluto provare a veicolare un messaggio e a dire ai lettori: “Ecco, io ora la vedo così. Questa è la mia diagnosi del problema”. Problema del quale non possiedo ovviamente una soluzione; diciamo che, per cominciare, ho una proposta di antidoto. Ora però devo dirti qual è il problema.
L’idea della Rabbia è nata per descrivere una condizione che ci affligge da prima del marzo 2020, ma che con la pandemia si è accentuata. Non sto parlando dell’inflazione. Mi sembra evidente che il disagio provocato dalla pandemia abbia portato molte persone a perdere di vista la solidarietà umana e la gentilezza. Siamo diventati tutti un po’ simili a cagnetti rognosi pronti a contendersi una torta sempre più piccola, a darci spallate per guadagnarci un posto in prima fila nello struscio del sabato. Non sarà stato per tutti, ma a molti credo che sia accaduto: ci siamo incarogniti. Non ho mai avuto ambizioni edificanti, né mi sono mai piaciuti i predicatori, ma ho sempre coltivato un’attenzione per il lato morale delle vicende, così sarei già contento se qualche lettore trovasse nelle pagine della Rabbia lo spunto per trasformare la propria frustrazione in qualcosa di costruttivo, magari di bello e poetico. In questa trasformazione alchemica c’è tutto da guadagnare e nulla da perdere. E così abbiamo svelato, almeno un po’, la mia proposta di antidoto.
Ancora: la rabbia è una malattia dell’anima, ma lo è anche del corpo, il suo termine medico è idrofobia. Paura dell’acqua. Chi ne soffre prova terrore per questo elemento. Una delle malattie più letali della storia: negli esseri umani non vaccinati la morte sopraggiunge, in modo atroce, nella quasi totalità dei casi. Peggio della peste bubbonica… solo l’Ebola nella variante Zaire le si avvicina. Il libro, naturalmente, non parla di malati, né di idrofobia, ma della rabbia dell’anima. Anche questo un sentimento potenzialmente letale, per chi lo prova e per chi lo suscita. Così col mio racconto ho cercato di diffondere qualche anticorpo, per evitare che la rabbia dilaghi.

La Rabbia non è la tua prima opera scritta: da dove nasce la tua esigenza di scrivere?
Ho sempre amato scrivere e la mia penna scorre con alterne fortune e urgenze da quando avevo 14 anni, forse sempre per gli stessi motivi: per lasciare una traccia e provare a vincere la morte; per denunciare una condizione, quella umana, che trovo splendida, ma anche costellata di immeritate insidie e di meritate sciagure; per dimostrare a me stesso di non essere passato invano, e questa forse è la motivazione più ignobile, perché in realtà l’unico modo per non passare invano dovrebbe essere amare il prossimo e fare qualcosa di buono per lui. Mi consolo pensando che nella mia scrittura ci sia anche un tentativo di incontrare e amare l’Altro. Scrivo, in definitiva, perché desidero essere uno scrittore e questa è la parte di me che è invecchiata meno, negli ultimi trent’anni. Ho mantenuto un’adolescenza della penna, diciamo così, e credo che anche Rimbaud, poeta adolescente per eccellenza, sarebbe contento di trovarmi ancora fresco e desideroso di abbinare parole.

Uomo di azione vs uomo di ragionamento e pensiero: quanto c’è della tua passione per la filosofia (e conoscenza di tale materia) nel tuo libro?
L’ispettore Morganti, uno dei protagonisti della Rabbia (nella sua innata modestia, l’ispettore non ha mai preteso il ruolo di eroe principale e quindi non glielo attribuisco qui), ad un certo punto definisce la propria storia ‘esistenzial poliziesca’. Capisce che ciò che sta avvenendo è un curioso incontro tra filosofia e azione. Ora, lungi da me affermare che la filosofia non possa diventare o non sia essa stessa azione (non avrei capito niente, se lo dicessi), ma mi pare proprio che il mio amore per il logos e l’elucubrazione siano passati a vario titolo nei personaggi della storia. A volte penso che la Rabbia sia un racconto filosofico vestito di giallo. C’è un richiamo all’illustre tradizione francese del Settecento, c’è l’ironia di chi prova a tenere insieme due generi: il romanzo noir e la pagina speculativa. Ad un certo punto nella storia, ma solo dopo aver bevuto un po’, Morganti si diverte a giocare con Platone, Tocqueville e Proudhon… perché si trova bene in loro compagnia, li frequenta da anni; soprattutto, perché si considera loro amico e passare un po’ di tempo con loro lo fa sentire meno solo. In servizio sarebbe molto più sobrio, modesto e schivo, ma la sera gli piace scegliersi le migliori compagnie con l’aiuto di qualche bicchiere di Barbera. Il suo atteggiamento, a parte quel tocco di follia che gli deriva dal vino, è simile a quanto racconta Machiavelli in una famosa lettera a Francesco Vettori. Ne cito un passo, perché è altissima letteratura, è italiano mirabile: “Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui”. Meraviglia, non trovi? Beh, Machiavelli era molto meno modesto nel nostro Morganti.
Lo sai, questo è un blog di viaggi e ti devo chiedere di raccontarci 3 luoghi che ti hanno particolarmente colpito. Ovviamente raccontaci anche perché.
Ti seguo da anni e ho sempre apprezzato la tua capacità, tipica degli spiriti liberi, di spaziare tra le materie, in una dimensione che vorrei definire ‘umanistica’, visto che abbiamo appena citato un maestro di quel glorioso periodo. Il primo luogo è a Torino, la Galleria Umberto I, uno dei passage che fanno assomigliare la città in cui vivo a Parigi. Nella galleria, perfetta per una passeggiata nei giorni di pioggia, si aprono negozietti, barucci, curiose botteghe officinali e si spalanca anche qualche finestra sul lato oscuro della vita umana, con anfratti e scale cadenti che sembrano provenire da un romanzo popolare dell’Ottocento. Quando mi affaccio, attratto dalle ombre e dai chiaroscuri, penso sempre di veder sbucare una sartina tisica o un poeta maledetto. Mi piace fantasticare e mi commuovo, anche perché nel confronto con Parigi la Torino dei passage esce un po’ sconfitta, un po’ sorellina sfortunata – ma le vogliamo bene lo stesso.
Il secondo luogo è Alba, la città dove è nato e vissuto uno dei miei scrittori preferiti, Beppe Fenoglio. In questi giorni, anche perché ricorre il centenario della sua nascita, mi piace sottolineare la dimensione ‘ettorica’ del suo Partigiano Johnny, ovvero la sua solidarietà (dovrei direi militanza) per il mondo degli aggrediti, siano essi troiani, partigiani o… ucraini. Voglio credere che a spuntarla, ad avere la meglio, non a vincere, ma ad avere ragione, sia questa volta Ettore e non più Achille (che per altro fece una brutta fine), sia l’aggredito e non l’aggressore. Tema terribile e sempre attuale.

Il terzo luogo, e qui torniamo un po’ alla Rabbia, è Buenos Aires, la più magnetica delle grandi città che io abbia visto. Laggiù al confini del mondo, là dove l’acqua nei lavandini scende al contrario rispetto a noi, fugge la moglie dell’ispettore Morganti quando decide di lasciarlo. Chissà che cosa va a cercare… io credo che Buenos Aires sarebbe il luogo giusto per cercare il proprio doppio. Città sueño, metropoli europea del Sudamerica che cuce insieme Parigi e il Terzo Mondo, città che porta i nostri cognomi e dove le facce sono così simili alle nostre che a volte, camminando, ti aspetti di incontrare la tua. Ecco, sì, credo che se volessi perdermi, lì ritroverei un altro me stesso.
[Riprendo la parola io, la Giovy]
Sapete una cosa? C’è un giorno di luglio di qualche anno fa che non dimenticherò: quel giorno conobbi Luca Wanderallen e anche Paolo. Fu davvero bello e sorrido sempre tanto quando penso a quella giornata estiva meravigliosa. Sono stata felice di aver intervistato Paolo perché, oltre alle sue risposte, mi ha regalato delle grandi citazioni e dei concetti che mi permettono di ragionare meglio e di più. E io adoro ragionare. Ho letto il suo libro quasi in un soffio e lo rileggerò di nuovo nei prossimi giorni perché voglio notare maggiormente i dettagli. Paolo scrive alla grande e c’è davvero molta Umanità in ciò che ha scritto. E – visto che si parlava di citazioni – la sua Umanità è un qualcosa che si avvicina alla Comédie Humaine di Zola, solo trasposta al XXI Secolo, con tutto quello che ciò possa voler dire. La Rabbia è un libro che aiuta a passare del tempo insieme a delle belle parole e, nel contempo, ci porta a ragionare – per davvero – su una delle emozioni di cui si parla più a vanvera o che, spesso, si sottovaluta. Come se non ci toccasse mai ma non è così. Ringrazio Paolo per le belle parole che ha detto su di me: fa sempre piacere sentirsi definire esattamente come si pensa a noi stessi.
Tutte le foto senza caption sono © Giovy Malfiori e Paolo Giuseppe Alessio – riproduzione vietata.
carissima Giovy, grazie per questa splendida intervista e per il tempo che con così grande affetto mi hai regalato. Il tempo, questo bene prezioso, è il luogo in cui si ritrovano i veri amici. Con smisurato affetto, Paolo
Sono stata molto felice di averti intervistato e ci tenevo proprio. Dobbiamo far leggere il tuo libro a tutti!