
You take my self, you take my self control, you got me livin’ only for the night… se avete più o meno la mia età, l’avete letta cantando. La canzone che contiene questi versi è Self Control di Raf, datata 1984: è stata un successo a dir poco dirompente. Mi è venuta in mente l’altra sera quando, intorno alle 21, la mia casa ha tremato come non so cosa, facendo cadere i libri in terra e spostando il divano, con me sopra, in avanti. Ed è stato improvvisamente 2012: la mia testa ha fatto un balzo indietro a quel periodo che io chiamavo “il grande campeggio”, per via delle tante tende piantate praticamente ovunque. Un periodo che mi ha tolto da casa, dal mio contenitore, e mi ha sbattuta fuori, facendomi vivere completamente tutto senza pelle, compresa la morte di mia madre. Per quanto uno sia felice e cosciente del proprio livello di mindfulness – e io lo sono, lo ammetto – può arrivare sempre qualcosa che si comporta come la Delorian di Ritorno al Futuro. Ecco, oggi ho deciso di scrivere per rimettere in ordine le cose in me e ritornare a quel self control di cui vado tanto fiera.
In principio fu maggio 2012

Faccio un po’ un riassunto delle puntate precedenti perché, nel 2012, questo blog era già vivo da un annetto. In quei giorni, però, tutto prese il sopravvento e io non scrissi praticamente poco o nulla. La mia vita era passata da regolare a marasma nell’arco di poche ore. Ho sempre avuto paura del terremoto. Ricordo una mattina, mentre ero al liceo, tremò la scuola (era il 1996 e il terremoto fu proprio qui in Emilia). Io vivevo in Veneto al tempo e la mia prof di scienze ci raccontò quante zone sismiche ci fossero intorno a noi. Non so se il mio terrore nacque lì o fosse già in me e aspettasse solo di uscire. Il fatto fu questo: capii che il terremoto era la forza naturale di cui avevo più paura. Negli anni successivi ne ebbi la dimostrazione. A Cuba, nel 1999, mi trovai in mezzo all’uragano e non ebbi proprio paura di quella giornata in cui vedevo palme salde come il cemento, piegarsi come fossero bamboo. Tutto andrò avanti come sempre, con la mia paura dentro l’anima ma sempre a riposo. A maggio del 2012 cambiarono le mie convinzioni. La scossa del 20 maggio arrivò di notte: io mi accorsi di come barcollasse l’armadio davanti a me e urlai a chi stava con me al tempo “vieni via” non appena la scossa finì. Notte insonne, notte successiva sul divano di un’altra casa. Poi il ritorno “nella mia custodia” e quella frase che mi avevano sempre detto “ora che è arrivato, non può tornare. Stai tranquilla“. Il calendario segnava 29 maggio quando io, ferma sulle scale dell’edificio dove lavoravo, sentivo i mattoni sbattere l’uno contro l’altro intorno alle 9 del mattino per quella potenza che scosse l’Emilia. Alle 13 accadde ciò che non scorderò mai: quel 5.9 che fece tremare anche il prato su cui mi trovato. E lì si scoperchiò il vaso del terrore.
How fragile we are

Le conseguenze furono molte e andarono dal non vedere più la mia casa per settimane e settimane al fatto che io avessi l’angoscia ogni volta che mettevo un piede su di una scalinata. E poi la doccia, non parliamo della doccia: e se il terremoto tornasse mentre mi lavo? Ci ho messo 10 giorni prima di riuscire a utilizzare di nuovo il balsamo perché mi sembrava assurdo stare lì ad attendere nuda, con il pensiero di cosa avrei fatto se la terra avesse tremato. Come se questo non bastasse, iniziai a sentire le vertigini (mai provate prima di quel momento) e a temere anche un cambio di binario del treno, fatto in velocità. Nello scrivere queste mie sensazioni recupero la parte razionale di me e forse voi sorriderete nel leggerle. Ditevi pure “povera, Giovy. Non sono queste le tragedie del mondo“. Io vi rispondo che non lo sono del mondo ma che lo sono per me. Lo sono state per me. L’altra sera, quando la terra ha tremato, io ero qui da sola e il vaso del terrore si è scoperchiato di nuovo. La paura è un essere irrazionale che governa tutto ciò che razionale. La paura gioca a domino con la razionalità: dà un colpetto al primo tassello e parte una reazione a catena che richiede tempo per essere fermata. Oppure vale la pena di lasciarla andare per poi risistemare tutto. Col tempo, nella mia vita, ho imparato a accettare tante cose che non posso controllare: le decisioni altrui, per esempio. Quelle che riguardando anche me, si intende. Sono brava quando si tratta di un qualcosa che mi mette in relazione con l’altro. Ho capito di dover lavorare ancora molto quando si tratta di avvenimenti che, proprio, non posso né prevedere né controllare. Devo imparare ad arrendermi all’azione della Natura.
Il mio Molliccio

Mi chiedo davvero una cosa: sono l’unica ad avere paura dell’azione della Natura sull’essere umano? Perché temo certe cose sì e certe cose no? Dovrei rispondermi da sola dicendomi che sono umana e che questo è totalmente normale. Totalmente accettabile. Che non devo aver paura della paura. Strana frase, no? Nella mia vita, credo di essere arrivata impreparata a qualcosa: a scuola e nel lavoro sono sempre stata “sul pezzo“. Ho sbarellato – passatemi il termine – ogni tanto nei miei fatti personali ma – ribadisco – quello è un frangente della mia vita in cui riesco a tollerare maggiormente la mia spiccata e fallace umanità. Come si affronta, quindi, una paura come quella che mi alberga dentro ora? Semplice, si fa per dire: la si guarda in faccia. Evitare la paura è il miglior modo per far sì che cresca e che si ripresenti davanti a noi con una potenza maggiore. Guardarla in faccia, conoscerla e lasciare che ci sia dialogo è l’unico modo per batterla, vincerla, rimetterla al suo posto. Mentre scrivo questo post delirante, indosso la maglia con tutti gli incantesimi di Harry Potter. L’incantesimo Riddikulus (nel libro è scritto così anche se a me viene più da dire Ridiculus) rende innocuo un Molliccio, che altro non è che una creatura che si mostra grazie alla nostra paura. Il mio Molliccio arriva quando cala il buio e io entro in quel momento del giorno in cui sono felicemente più vulnerabile: faccio la doccia, so di fiorellini e mi metto sotto le coperte a leggere. Di solito, è il momento del giorno in cui mollo le difese e la razionalità più pura. Per me è un momento sacro che ora è intaccato dal terrore. Devo pronunciare quell’incantesimo con l’intendo di personificare quella paura, farla sedere al bordo del mio letto per guardarla e dirle “brutta stronza, hai rotto i coglioni“.
Il vaso del terrore: il podcast

Ci stava anche una puntata del podcast su questo argomento. Mi piace cercare di essere la prima a buttarla in vacca, non per minimizzare… perché la paura non va mai minimizzata. Avete presente quelle frasi tipo “ma dai, cosa vuoi che sia?“… Ecco. Mi fanno girare molto più della paura stessa perché minimizzare, senza aver prima ascoltato una persona, è come sminuire un’emozione così impattante. Non si fa. Come mettere il formaggio sulla pasta col tonno. Non si fa. Quello che si può fare, però. è parlare delle proprie paure. Nella vita come nel viaggio. Ascoltate il podcast e raccontatemi le vostre.
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