
Nei giorni scorsi, ho avuto la febbre. Poca, eh!? Considerando che porto la temperatura di base attorno ai 34° e qualcosa, per me 37,5° comincia a essere una temperatura non sottovalutabile. Tampone negativo, tutto a posto. È solo un malanno di stagione, uno di quelli che non provavo da un po’ perché, in circolo dentro di me, c’è la medicina più potente di tutte: l’avere una partita iva. A questa aggiungiamo l’attività booster (altra parola di moda ora) del vivere da sola e il gioco è fatto. Anzi, condiamo il tutto con la ferma convinzione di non voler attaccare nulla a nessuno – che di ‘sti tempi non è proprio il caso – e abbiamo il quadro completo. Il quadro della Giovy sul suo divano blu che legge, ascolta musica, guarda il soffitto mentre The War on Drugs cantano Living Proof. E fa la spesa online. Dio salvi la tecnologia.
Feeling good (alone)

Non so che cosa voglio dire con questo post ma mi girano in testa due parole, quelle che ho messo nel titolo: sostegno e sostenibilità. Non so come siate voi quando siete ammalati (oddio, non mi definisco ammalata perché è una parola grossa. Facciamo “quando non state bene“), ma io divento come i gatti che si mettono in disparte e si stanno lì ad attendere. Forse tutto dipende da come sono stata abituata fin da piccola. Ora, per cortesia, non immagine una canzone triste e sconsolata ad accompagnare le mie parole. Era tutto normale per me ma ho capito col tempo che, forse, la mia normalità non combaciava con quella del resto dei miei amici. O quasi. Dunque – dicevo – io me ne sto da sola quando sto male perché è così che mi hanno insegnato a stare. Avevo la febbre? Stavo a casa da scuola, aprivo il divano letto in salotto e ci mettevo il piumone, mi infilavo lì e leggevo alla grande. Poi guardavo la tele se la testa me lo concedeva. Il tutto a casa da sola. No, non urlate all’abbandono di minore. Mia madre faceva l’infermiera non era proprio comodo telefonare al lavoro al mattino e stare a casa. Quando, parlando con i miei compagni di classe, scoprivo che le loro madri stavano a casa io rispondevo “perché tua madre sta a casa? Non è che ti passa la febbre se lei ti guarda“. A 7 anni ero già una brutta persona. A me non è mai passato per la mente che stare accanto a uno con la febbre possa essere di sostegno. Attenzione: parlo di febbriciattole normali e affrontabili con un po’ di sonno al caldo e nemmeno mezza tachipirina. Non di cose serie, per le quali non ci vogliono solo le madri ma anche i dottori. Ah, dimenticavo: avete mai letto il racconto che ho scritto su mia madre? Lei era un vero supereroe per me.
Sostegno, secondo me

Allora, dentro di me, è germogliata questa pianta che, per essere simpatici, chiameremo “Tarrangiola“, ovvero un po’ come la mandragola di chi ha appreso l’arte di arrangiarsi. Da adulta, lo ammetto, ci sono stati dei casi in cui la gente si è preoccupata per le mie piccole febbri stagionali e la cosa mi ha fatto piacere. Piacere perché era sostegno non invasivo. Non fraintendetemi: sono una brutta persona ma, per me, è doveroso chiedere sempre “come stai” a qualsiasi essere vivente. Con interesse, però. Non perché sia una frase fatta. Mi piace se la gente si interessa a me e a come sto. Se il malanno in corso lo concede, però, preferisco la solitudine stile gatto. Guarisco meglio, guarisco prima. Sono fortunata, lo ammetto, perché sono sempre riuscita ad arrangiarmi con la febbre e non vorrei mai fosse diverso. La domanda che mi pongo ora è una sola: qual è il limite tra sostegno e invasione? Ho pensato alla parola sostegno tanto, nelle ultime due settimane. Complice anche il fatto di aver visto la partita di rugby (dal vivo, finalmente) tra Italia e All Blacks, ho ripensato al valore del sostegno e a quanto io l’adori. Il sostegno, per me, è proprio come nel rugby: tu corri in avanti con il tuo pallone e sei pronto all’impatto con l’avversario ma sai che, dietro di te, c’è qualcuno. Non c’è bisogno che questa persona ti urli “sono qui“. Tu lo sai. Punto. Anzi, più sta in silenzio, più efficace sarà il tuo offload fatto all’ultimo minuto.
Da sostegno a sostenibilità

Da sostegno, la mia mente fa un volo pindarico potente e se ve va dritta in braccio alla parola sostenibilità. Se ne sente di ogni, in questi tempi, sulla sostenibilità. Non posso fare a meno di farmi altre domande. Soprattutto perché, se siete qui a leggere, probabilmente vi piace girare il mondo: vi siete mai chiesti quale sia l’impatto del nostro viaggiare – di questo eterno incespiscare, come direbbe Guccini – sul nostro mondo. Quanto inquiniamo con quel dato aereo, in quel dato albergo, mangiando quello che scegliamo o visitando determinati luoghi? Lo so: se ci infiliamo dentro questo tunnel di dubbi, si potrebbe rischiare di non muoverci più da casa. Molti, però, sono gli aiuti (i sostegni…) che abbiamo. Provo a elencarne alcuni:
- Se tempo e budget ce lo permettono (e questa, lo sappiamo, è una grande variabile), viaggiamo in treno anziché in aereo.
Magari ci guadagna anche il panorama. - Chiediamoci sempre dove stiamo andando a mangiare: sosteniamo le comunità locali con le nostre scelte. Magari potremmo farlo a parità di prezzo e di alimento scelto.
- Ricordiamoci sempre che il primo spreco è sempre nostro, soprattutto in hotel: non è necessario avere asciugamani pulite ogni giorno e, magari, nemmeno che ci puliscano la camera tutte le mattine. In un viaggio di due notti, per dire, potrebbe non essere necessario. Molto dipende da noi, dai nostri desideri (che in viaggio sono super leciti) e dalle nostre scelte.
Sostegno e sostenibilità: il podcast

Ecco, giusto per fare l’avvocato del diavolo anche verso me stessa, ho messo giù una puntata del podcast che pone davvero tante domande e forse dà poche risposte. Come sempre, del resto. Se non mi incasinassi nei meandri della mia mente, non sarei io. Voi mi volete bene lo stesso, vero? Dai che ho la febbre e fa bene sentirselo dire.
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