
Avete presente quando dovete andare da qualche parte e mettete le cose alla rinfusa dentro la prima borsa che vi capita sottomano? Ecco. Il mio armadio è pieno di borsine di cotone di qualsiasi tipo. Ogni tanto ne prendo una e vado. Ne ho due di preferite: quella di una vecchia campagna di Visit Britain e quella che mi hanno regalato quando sono stata in viaggio a Birmingham. Le uso praticamente per ogni cosa. Senza divagare troppo, vi dico che questo post è un po’ come quella borsa: piena di cose, un po’ sconfusionate ma tutte con un comune denominatore. Me. Gli avvenimenti, non proprio fuori dall’ordinario e rientranti nel normale sistema della vita di tutti i giorni, mi hanno permesso di ragionare su tante cose. Quali? Inizio dal fatto di avere una personalità, di saperla esprireme. Al tutto aggiungiamo un po’ di quello che viene chiamato Fattore C. Poi mescoliamo il tutto. Pronti, partenza… via.
Pink, it’s the colour of passion
Da pochi giorni possiedo un paio di occhiali da sole nuovi: sono rosa, manco a dirlo. Sono quelli della foto qui sopra. Si vede che, quella appena trascorsa (e magicamente immortalata da un reel sul mio profilo Instagram), è stata la stagione dei danni ai miei occhiali: a luglio, giocando col cane Lola, si sono rotti i miei adorati occhiali da vista. Sono andata in giro una decina di giorni con una stanghetta incollata con l’Attak, stanghetta che ha retto bene ma che, ovviamente, non poteva più essere piegata. A questo, aggiungete il fatto che avevo sporcato una lente di colla… e il gioco è fatto. A settembre, andando a Tenerife, ho perso i miei occhiali da sole neri. Li adoravo e li portavo da 13 anni. Quando sei ipermetrope e con gli occhi con un surplus di diotrie diverso l’uno dall’altro… ecco, non è proprio facile entrare dal primo ottico e rimediare. Essere un super-eroe con la super-vista ha il suo costo e quindi ho atteso un po’ per l’acquisto di un nuovo paio di occhiali da sole. Appena entrata nel negozio, ho buttato gli occhi su di un paio che mi piaceva da matti. Rosa, ovviamente. E qui passo al ragionamento successivo.
Questione di attitudine

Avete presente quando andavamo a scuola e saltavano fuori ragionamenti del tipo “è brava ma non si applica“? Ecco, a me non è mai successo. Io ero (sono) brava e mi sono sempre applicata alla grande. Avete presente quella cosa che viene definita come il fatto di “essere una plain Jane“? No? Dare della Plain Jane a qualcuno è come dire di non essere capace di distinguersi. Ecco. A me non è mai successo. Ho sempre avuto dei miei tratti distintivi fin da piccola: i capelli spettinati (malgrado i tentativi di mia madre di raccoglierli a dovere in trecce e code di ogni genere), gli occhiali, il fatto di essere sempre amica di tutti, di essere stata una leader fin da piccola. Badate bene: non un capo-bulletta capace di terrorizzare tutti. Io sono sempre stata scelta come leader anche quando non avrei voluto. Questa, per molti, si chiama attitudine. O meglio, avere una propria attitudine definita. Io ringrazio Thor, Odino, Cthulhu e qualsiasi divinità sia presente nell’alto dei cieli per questo. In un mondo e in un’epoca in cui l’omologazione è la chiave dell’apparente successo (ma vuoto) soprattutto da chi popola un certo tipo di social, avere una propria attitudine – Signori miei – è pura rivoluzione. Ieri mattina, gironzolavo per 5 minuti sui social ho ci ho visto dentro tanta omologazione. C’è sempre stata ma ora cresce, cresce, cresce a dismisura. Allora mi sono chiesta una cosa: trovare la propria attitudine è davvero così difficile? Sono io il super-eroe che ce l’ha fatta (assieme a tutti quelli che ce l’hanno fatta) o sono gli altri a essere pigri e a pensare che si vinta sempre seguendo la corrente? Quindi sono passata alla fase successiva del mio ragionamento. Venite avanti con me.
Fattore C, dice?!

Ho pensato a quanto conti il Fattore C nella vita: io credo molto anche se non è ovviamente, tutto. Probabilmente non è nemmeno la parte preponderante di ciò che davvero conta nella vita ma – ammettiamolo senza remore – un po’ di Fattore C ci vuole sempre. Alessandro Manzoni l’avrebbe chiamata Provvidenza. Jean Racine con la sua Phèdre l’avrebbe chiamata Predestinazione (tipica dei Giansenisti) molto più spesso noi lo chiamiamo Destino. Tassonomia e nomenclatura a parte, la sostanza non cambia: lasciamo sempre quel che di mistero nelle azioni che viviamo o che ci circondano perché, probabilmente, così possiamo che non tutto dipenda sempre e comunque da noi, nel bene e nel male. Io credo di essere dotata di un gran Fattore C e lo ammetto candidamente. L’ho visto in molti momenti della mia vita: dal fatto di aver trovato in supersconto gli occhiali che ho acquistato (proprio quegli occhiali da sole rosa) come il fatto che, tempo fa, viaggiavo in autostrada due auto prima di quelle che si tamponarono rovinosamente a due metri dal casello dove stavo uscendo. Mi è successo in viaggio, quando sono riuscita a prendere un aereo prima di una rovinosa e accidentale chiusura dello spazio aereo di una data zona o, magari, il giorno prima che la parola pandemia capitasse nelle nostre vite. Mi chiedo, ora… tra me e me, quanto Fattore C possa esserci per tutti noi. Gli psicologi la chiamerebbero forza della profezia auto-avverante (o effetto Rosenthal). Avete presente? Si accorda un po’ al gioco che vi proponevo una settimana fa.
Fattori C e attitudine: il podcast

Lo sapete: mescolo questo post sui cavolacci miei con ciò che racconto nel podcast. Lì, ho inserito tutta una parte che riguarda il Fattore C in viaggio. Perché davvero ogni tanto ci vuole. Così come ci vuole attitudine anche nel viaggiare. Ascoltate le mie farneticazioni e poi ditemi un po’ cosa pensate di ciò che racconto. Qual è l’espressione della vostra attitudine e quando avete vissuto degli episodi di Fattore C in viaggio?
La foto senza caption è © Giovy Malfiori – riproduzione vietata.
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