
Non so nemmeno io dove voglio andare a finire con questo post. Ma lo scrivo lo stesso. È lunedì mattina, il lunedì mattina dopo una domenica pazzesca, a tratti quasi indefinibile. Voi leggerete queste mie parole di martedì, perché è quello il giorno destinato alle mie farneticazioni personali. Insomma… ai cazzi miei per dirla terra-terra. Le finestre sono aperte e ci sono due cardellini sul tiglio Attiglio che, ogni tanto, si fanno vedere con la loro testolina rossa. Mi guardano, io sorrido: chissà se si rendono conto del mio mio sorriso. Attiglio di sicuro. Lui mi conosce, mi guarda, mi custodisce, mi protegge da anni. Mai come nei giorni scorso ho compreso come intersecare dentro di me dei versi di alcune canzoni che amo e che mi hanno sempre detto tanto. C’è Bolormaa dei C.S.I. e poi c’è Verso Oriente dei Timoria. Dovrei pensare a tatuarmi qualche pezzo di quelle canzoni addosso. Hanno troppo significato per me. Guardo di nuovo fuori dalla finestra; respiro; un secondo respiro. Ora scrivo.
Fluire, dal latino fluĕre

Splendida Bolormaa, arresa all’amore
Fluida, contorta, molle, resistente
Lascia fluire il dolore
Che la felicità è senza limite e va e viene
Bolormaa, C.S.I., 1997
Me la canto da ieri, pensando alla voce di Ginevra Di Marco che entra leggera e avvolgente alla fine di un pezzo scandito dalla tonalità grave di Giovanni Lindo Ferretti. Come nella mente di un dj schizofrenico che mette la musica solo per sé e pochi pazzi in un programma notturno, quella chiusa così speciale si fonde con il duetto Finardi-Pedrini che fa di Verso Oriente uno degli inni della mia vita.
E sarò acqua che
Si disseta da sè
Io e me vento che
Si rincorre finchè
Dormirò libero
E al risveglio
Il sole mi scalderà
Verso Oriente, Timoria, 1993
Com’è che ora di canzoni così non ne escono più? Ferma Giovy, non è di questo che vuoi scrivere oggi. Il fatto è che sono passata da dirmi “passo dopo passo” a fare una sorta di maratona emotiva. Confusione momentanea. Respiro. Un altro respiro: Torno in me. Oggi devi pensare alla parola Fluire. La Treccani (lo sapete che sono fissata con l’etimologia e le definizioni) dice così “dal lat. fluĕre […] In usi fig., scorrere con scioltezza, dolcemente e con continuità“. Scorrere con scioltezza? Voi ci siete mai riusciti? Detto tra noi, qui torniamo nell’uso potente delle sinestesie che Baudelaire, davvero, scansati. Un corpo umano – un essere umano – può fluire nel tempo e nello spazio quasi come non fosse un solido ma un liquido. Di cose liquide, nella nostra vita, ne ha parlato un sacco Zygmund Bauman e non starò qui a ripetere. Sono qui ad affermare quanto ho compreso nei giorni scorsi: è fluendo che diventiamo solidi. È fluendo che riafferiamo le nostre certezze. Giovy… cosa hai mangiato o bevuto stamattina? Nulla di strano: sono solo tornata a vivere dopo mesi di esilio. E sono tornata agli abbracci, al fatto di stare a tavola con qualcuno, al fatto di dire “ci vediamo da te“. Al fatto di incastrare impegni manco fossi il road manager di una rock star e una rock star in una sola persona. Perché è questo che sono. A modo mio, una rock star. E così deve essere.
Stai bene, Giovy?

Cavolo, penserete, sto farneticando ma non me ne importa nulla. Scrivo e – per l’appunto – lascio fluire i miei pensieri per dare loro una forma solida. Solida fatta a lettere nero su bianco. O meglio grigio antracite su bianco sulle pagine di questo blog. Domenica è stata una di quelle giornate che segnerò sul calendario con una stellina di fianco alla data. Dopo 5 mesi (5 mesi, ripeto, 5 mesi) sono tornata in Veneto e, in una sola giornata, ho visto e condiviso dei momenti con tre delle persone più importanti della mia vita. Tre di quelle 12 persone che vivo costantemente In der Ferne. Domenica, invece, ero davanti a loro. Non mi sono risparmiata nulla: abbracci, confidenze, parole come se mai ci fossimo divise. Ti voglio bene come se piovesse. Ripeto: come se non ci fossimo mai divise. Perché quello – per fortuna – non è mai successo. Allora è stato lì che ho iniziato a ragionare sul fatto di lasciare fluire. Se fosse quello il segreto di ogni cosa che possiamo vivere?
Quando può mutare la forma, ma non la sostanza

Lasciar fluire il dolore, come dice Bolormaa dei C.S.I. anziché scandirlo con i nostri respiri e tenerlo lì per ostinarci a capirlo. Lo teniamo lì e ci fa male. Lo lasciamo, invece, fluire e lui se ne va. Perché, diciamocelo tutti a voce alta: ne abbiamo di dolore dentro, causato da la qualunque e in qualunque momento. Ma ne abbiamo. Lasciar fluire le esperienze che prendono, danno, uniscono, dividono, sembra che dividano ma sono solo percorsi. Mi sono sentita proprio così domenica, parlando con le mie persone: abbiamo lasciato fluire le nostre vite da oltre 30 anni e a tratti 40 eppure siamo ancora noi. L’argine non contiene il fiume, lo obbliga a un percorso che lui non ha mai deciso. E chi siamo noi per imporglielo. E chi siamo noi per imporre a noi un percorso che non sia davvero il nostro? È solo lasciando fluire le cose che le cose accadono. E che le cose crescono. E che le cose restano. Quante congiunzioni a inizio frase, Giovy. Non va mica bene, sai? Amen, oggi scrivo come penso. Lascio fluire, appunto, tutto ciò che mi scorre dentro e sento che fluendo io sono forte. E forte resterò. Daje con le congiunzioni a inizio frase. Il fatto è che è un po’ come se un setaccio naturale fosse dentro di noi, tra cuore e anima. Le cose che contano si fermano lì. Lì restano, lì crescono, lì fluiscono. Non diventando un per sempre fisso e immobile. Definendo loro stesse perché fluiscono: mutano nella forma ma mai nella sostanza. Ecco, adesso mi viene in mente un’altra canzone dei C.S.I. e la canterò fino a domani. Senza sosta, proprio come il mio costante fluire.
Ventiquattromila pensieri al secondo fluiscono inarrestabili
Alimentando voglie e necessità
Forma e Sostanza, C.S.I., 1997
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