
Vi racconto una cosa di me: i mobili di casa mia, salvo poche eccezioni, sono sempre gli stessi dal 2005. Erano con me nella mia casa in Svizzera e hanno viaggiato al mio seguito quando sono tornata a vivere in Italia. Uno degli oggetti d’arredo che ho più a cuore è il mio divano. Povero, inizia a dare segni di cedimento ma è sempre lì pronto ad accogliermi. L’altro giorno pensavo a quale potrebbe essere il mobile, qui dentro casa, capace di parlare di me. Di raccontarmi. La risposta è stata duplice: il mio letto (con me dal 1999) e il mio divano. Il divano, però, credo che ne sappia molto di me. E, se potesse parlare, io non so cosa potrei fare: ascoltare o scappare.
Nella mia quotidianità

Nei miei giorni, in quel tran-tran quotidiano da cui nessuno sfugge, il mio divano è alla mia sinistra. La finestra con il Tiglio Attiglio alla mia destra. L’immagine della stanza dove vivo – perché non posso dire solamente che lavoro qui, qui ci passo un sacco di tempo – è una sorta di involucro che mi custodisce. È il mio mondo nel quotidiano. Pur sapendo che il luogo in cui vivo non è totalmente casa, per me, e che sicuramente cambierò casa, questa stanza mi contiene nel vero senso della parola. Tutto è iniziato con il primo lockdown: questo è diventato il mio regno e, come tale, ha iniziato a raccontarmi. O forse l’ha sempre fatto ma io me ne accorgevo poco. Qui ci sono i miei libri, la mia musica, i miei film, alcune foto alle quali tengo molto. Chiunque, entranto dalla porta di casa, saprebbe chi sono io semplicemente guardando questa stanza. Se questo è il mio regno, il divano è il mio trono, il luogo da cui io dispongo del mondo e mi dono al mondo. Lì leggo, piango, parlo, rido, amo, faccio cose che non si raccontano, guardo film e accolgo chi varchi la mia porta. Ora che ci penso, non ho mai dato un nome al mio divano e inizio a pentirmene.
Come in un tempio
Come in un tempio, in un luogo sacro, qui dentro la mia casa il divano è la mia sala per le udienze. Un paio di giorno fa, delle persone completamente diverse tra loro e con nessuna connessione, mi hanno detto la stessa cosa: sei davvero come una principessa. Entrambi, poi, pensando che io capissi male, hanno sottolineato che non sono una principessa schizzinosa ed elitaria. Sono una principessa guerriera che, però, merita di essere celebrata proprio come tale. Vago nel mondo e nell’universo per salvare il mio pianeta e per fare qualcosa che permetta a tutti di vivere bene ma, ogni tanto, dovrei mettere il vestito con le balze, la tiara in testa e dovrei sedermi sul mio trono in attesa di essere adorata, amata, vissuta. Questo complimento (perché lo concepisco come tale) mi ha fatto pensare a quante storie potrebbe raccontare il mio divano se qualche incantesimo gli donasse la voce e la bocca per parlare. Come in un tempio, lui accoglie la gente che accorre per me. Il sancta sanctorum, invece, resta la mia camera da letto dove faccio entrare solo parole e persone altamente selezionate. E, badate bene, non sto parlando solo di cose intime e di sesso: sto parlando di chi tocca la mia vita quando io sono là.
Se il mio divano potesse parlare
Se il mio divano potesse parlare vi racconterebbe di una donna che scrive. Su quel divano ho scritto la qualunque. Anche la Favola di Caos e Anima. Se il mio divano blu potesse parlare, vi direbbe di quanta vita è passata lì sopra, di quanti sguardi, di quante parole, di quanti baci, di quanta passione, di quanto desiderio, di quanto dolore, di quanti “ti devo dire una cosa“. Di quante storie iniziate e finite lì. Se il mio divano potesse parlare vi racconterebbe delle mie personali ciliegie, di quanto io possa essere golosa e implacabile e di come mi senta fiera di esserlo. Vi racconterebbe di come il mondo possa essere “forever 1995”, dentro e fuori di me. Vi parlerebbe dei miei desideri, così forte che – spesso – non riesco nemmeno a raccontarli a me. Ma voglio viverli, tutti, uno dopo l’altro. Quel divano sarebbe pronto a disporre davanti a voi tutte le mie confidenze: da quello che accadde durante un bis di Sonica dei Marlene Kunz al Bloom di Mezzago, fino ad arrivare alla mia schiena spiaccicata sulla rete di un parco durante un concerto dei Massive Attack. O di quella volta che un albero mi fu spettatore in cose pazzesche. Vi racconterebbe di quando parlo all’aria qui dentro casa – o a miei 17 amici immaginari, decidete voi – pensado (leggete: sperando) di parlare a un qualcuno in particolare. Vi racconterebbe delle uniche vere volte in cui mi lascio andare. E tutto diventa potenza pura.
Come le ciliegie
Lo dicevo ieri su Instagram, ci sono delle cose nella nostra vita che sono proprio come le ciliegie. Non appena ce le abbiamo davanti, ne mangiamo una dopo l’altra. Vorrei aggiungere una suggestione a questa immagine. Era il maggio del 2018 e io sono finita in un frutteto per una cosa di lavoro. L’agricoltore che curava quel frutteto mi ha autorizzata a mettere le mani sui ciliegi per tirar giù qualsiasi cosa volessi mangiare. In qualsiasi quantità. È stata la realizzazione di un sogno, di una fantasia, di un desiderio. E come tale l’ho vissuta. Avevo una tshirt scollata a V quel giorno e il succo delle ciliegie mi sporcava bocca, scollatura e mani. Mi sono rimasti i segni fino al giorno dopo. E io adoro quando mi restano i segni addosso. Perché la frutta – sappiatelo – macchia un sacco anche la pelle. Una cosa del genere mi era successa solo in Finlandia quando, passeggiando da sola nel bosco, mi sono ritrovata a sedermi tra i mirtilli e a mangiarli come fossero l’unico cibo sulla terra. Con le ciliegie i segni sulla mia pelle era rossi. Con i mirtilli viola. Ero avvolta dalla realizzazione di quel desiderio come fosse la più lussuriosa delle esperienze. Perché – in fondo – lo era. Dicono che in certe situazioni particolarmente intime, piccanti e coinvolgenti, il nostro cervello stimoli il rilascio di alcune sostanze che danno la sensazione di piacere fisico e regalano appagamento. Nella testa più che nel corpo. Lo stesso accade quando “incontriamo” sulla nostra strada altri tipi di ciliegie di cui nutrirci: libri, amici, parole, contatto, qualcosa di buono da mangiare, qualcosa da comprare di cui non abbiamo assolutamente bisogno ma che ci fa del bene. Ho capito che, se il mio divano potesse parlare, vi racconterebbe di questo tipo di appagamento, di questo livello di piacere, di questo livello di sconvolgimento interiore da provare tutti i giorni urlando al vento o a chi è con noi “non fermarti“. Per poi continuare a dire ancora, ancora, ancora e ancora. Come se non ci fosse fine.
Tutte le foto senza caption sono © Giovy Malfiori – riproduzione vietata.
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