Sono giorni – cosa dico giorni, settimane – che sono qui che penso a questo post da scrivere. Il titolo, lo so, sembra quello della canzone di Sanremo ma io penso più al film di Luca Guadagnino (che, tra l’altro, mi è piaciuto tanto). C’è una grande differenza, però: chiamare le cose con il proprio nome è meglio che chiamare le cose con il nome di qualcuno o qualcos’altro. Non trovate? Uno dei primi post che scrissi agli albori di questo blog parlava di come trovare il giusto compagno di viaggio. La regola fondamentale è quella di non raccontarsi mai balle. In tutto. Questa dovrebbe essere una regola totale, capace di governare ogni nostra giornata. All’alba di una nuova situazione di pandemia che ci condizionerà la primavera (già, come un anno fa), eccomi qui a parlarvi del perché sia sempre meglio chiamare le cose con il proprio nome. A partire da noi stessi, da ciò che sentiamo e da come lo viviamo.
In principio fu “dai un nome all’Infanta Imperatrice”
La foto che vedete qui sopra avrebbe dovuto far parte del post di ieri, quello sul mio amore per Tenerife. Questo è il faro di Punta del Hidalgo, uno dei posti che più amo sull’isola. Quando lo vidi la prima volta, la mia unica esclamazione fu “andiamo a dare un nome all’Infanta Imperatrice“. Se non siete stati bimbi negli Anni ’80, probabilmente non capirete. In principio fu proprio colpa o merito di Michael Ende e de La Storia Infinita. In principio furono Bastian, Atreiu, Artax e compagnia bella. Grazie a loro ho capito che la mia fantasia (non a caso il regno si chiama Phantàsia) mi sarebbe sempre stata amica perché io ho sempre dato un nome alle cose. La mia Barbie si è chiamata, per un periodo Alexis, poi è diventata Cristina e poi Claudia. Gli alberi che amo si presentano sempre a me col loro nome: io devo solo pronunciarlo. Come per Attiglio, la Quercia Olympia, Edigio o l’Albero Euclide. Le mie api hanno tutte un nome. I miei amici immaginari che vivono qui con me in tempo di pandemia hanno tutti un nome e prima o poi ve li presento. I sentimenti hanno un nome. I viaggi hanno un nome. Tempo fa, qualcuno mi ha raccontato che il suo lievito madre era morto. Io gli ho semplicemente chiesto “gli avevi dato un nome?“. Al suo “no” ho ribadito il concetto che le cose senza nome muoiono. Perché non sanno chi sono. Non lo sai nemmeno tu. E allora… sotto coi nomi.
Tu chiamala, se vuoi, ansia da pandemia

Sai quando fai fatica a dormire, vero?! In questi tempi che stiamo vivendo, non si chiama insonnia. Si chiama ansia. A.N.S.I.A. Con le lettere ben scandite a voce alta. Come dicevo prima, inutile che ci giriamo attorno. Fare i finti ottimisti con la bocca piena di citazioni di gente più grande di noi, anche per entrare nel nostro cervello, non ha proprio senso. Ha senso capire come risolvere, come resistere, come andare avanti. Ognuno nel proprio modo. Quest’anno non è stato facile per nessuno e, benché proviamo giustamente tutti a badare di più al nostro meglio che al nostro peggio, l’ansia ci sta addosso come se fosse una coperta e ci entra dentro confondendoci le idee. E togliendoci il sonno. Chiamatela col suo nome, solo così potrete trovarvela davanti e prenderla a sberle. Non c’è nulla di male nel soffrirne: nessuno di noi ha mai vissuto un periodo così. Andiamo in pezzi, cazzo! Ne abbiamo diritto e, una volta spezzati, ricominciamo meglio di prima.
Tu chiamalo, se vuoi, esilio

Già, come Napoleone a Sant’Elena o all’Elba. O come Dante. L’altro giorno ho provato a spiegare a me stessa, scrivendo su Giovy VI, come mi sento e l’unica descrizione che posso tenere come buona è che mi sento in esilio. Avevo iniziato le frasi sul mio diario scrivendo che mi sento sola. Non è vero: so di non esserlo. Allora sono ripartita parlando di solitudine: no, non andava bene nemmeno questo nome. Mi descrivo spesso, parlando di questo periodo, come se fossi Rapunzel chiusa nella torre. Con i capelli troppo corti per calarli dal secondo piano per permettere a un principe in bicicletta (citazione da una canzone dei Tre allegri ragazzi morti) di salire, rendersi simpatico al drago Owayn Glyndwr che sta davanti alla mia porta (per davvero) e portarmi via. Sono in esilio, caspita. Un esilio dovuto alla pandemia, un esilio che mi sta tenendo lontana da ogni contatto umano da quasi 3 mesi e mezzo. 3 mesi e mezzo che sicuramente diventeranno 4 mesi e mezzo se non 5. E.S.I.L.I.O. Scandiamo bene anche queste parole.
Tu chiamala, se vuoi, voglia di vestirsi bene e lasciarsi ammirare

Una delle condizioni più “a tutto tondo” dell’esilio è che nessuno ti vede. A differenza di Napoleone o di Dante, nel mio esilio io non ho nessuno che mi faccia compagnia o che mi venga a trovare. Napoleone, addirittura, governava un’isola ma io no. Noi no. Ognuno di noi vive il proprio esilio nella condizione di vita in cui si trova: io vivo da sola. Ho capito che c’è una cosa che mi fa bene e continuerò a farla, esilio o non esilio. Vivo la mia giornata in leggings e magliette strane: ho deciso di usare tutte le mie magliette strane perché, ognuna di esse, contiene un pezzo del mio carattere, del mio essere che sono tornata a tirar fuori dopo tanto tempo. Ho letto un articolo molto bello su Huffington Post. Racconta dell’effetto limbo che viviamo in tempi di pandemia: mi sveglio, lavoro, mangio, lavoro, mangio, dormo. E così a ripetizione senza che nessun giorno sia diverso, se non nelle cose che professionalmente possono cambiare. Ne scriveva già Kafka un sacco di anni fa. Questo ci sta togliendo la speranza perché non abbiamo più aspettative. Per ritrovarle, io ogni tanto vado in camera e apro l’armadio: tiro fuori il vestito più bello che ho o una cosa che amo indossare. La metto, come se dovessi uscire o come se dovessi incontrare la persona più importante della mia vita. Scarpe comprese. E mi guardo. Allora sorrido. Mi dico sempre “tutto sto ben di Dio e nessuno che mi dica quanto sono bella“. Poi rido e penso che sono io la prima a dirmelo. E da quello nasce il primo “va tutto bene, Giovy” di ogni giorno.
Tu chiamala, se vuoi, paura

Ne parlavo sul podcast tempo fa: la paura è una cosa pazzesca. Nel male, certo. Ma soprattutto nel bene. Nel caso del periodo che stiamo vivendo, io sento che la paura è seduta di fianco a me qui in casa. Lei c’è ma non le permetto di governarmi. Anche se ci sono dei giorni in cui è lei a prendermi a sberle e non io ad avere la meglio. E, in quei giorni, inutile che la chiami con altri nomi: non è fragilità. È paura. Non è una giornata no. È paura. Paura di cosa? Rispondo con una citazione celebre, così intanto ci strappiamo tutti un piccolo sorriso. “Io, io ho paura di tutto… Di quello che sono, di quello che faccio, di quello che dico e, soprattutto ho paura che se me ne vado da questa stanza non proverò mai più quello che sto provando adesso… adesso che sono qui con te…“, disse Baby a Johnny in Dirty Dancing. Con tanto di musica di Solon Burke come sottofondo. Film a parte, io ho paura di questo periodo, di non riuscire ad affrontarlo con il mio fare da principessa guerriera quale sono. Perché, diciamocelo, ogni tanto si cede. E forse, io ho proprio paura di cedere. E cadere. E ho paura di perdere le persone che amo, che la vita ci impedisca di viverci in pieno come tutti dovrebbero fare. E quindi inciampo. Mi faccio male. Mi spezzo (e torniamo tutti al punto in cui parlo dell’ansia).
Tu chiamale, se vuoi, emozioni

Già, proprio come diceva Battisti. Tra tutte le cose a cui è doveroso dare un nome, le emozioni sono senza dubbio tra le più importanti. E qui la cosa si fa difficile perché, troppo spesso, ci raccontiamo balle come se non ci fosse un domani. In un’epoca come questa in cui tutto è vacillante, dare un nome a ciò che si prova non è solo doveroso…. Ci aiuta a sopravvivere. E fa male… che non lo so? Mi alzo tutte le mattine pensando ai luoghi che mi mancano. Il cuore sembra una spugna da spremere quando penso a chi lovvo come se non ci fosse un domani. Sento nostalgia per il fatto di non abbracciare qualcuno da troppo, troppissimo tempo. Io non so cosa facciate voi quando vi sentite così e quando si tenta di dare un nome all’emozione: io scrivo. Scrivo sul mio diario, scrivo qui sul blog proprio come sto facendo ora, scrivo messaggi in cui chiamo la gente con vezzeggiativi che non avrei mai immaginato di usare tipo “tesoro mio“. Manco fossi Smeagol. Oddio… sto diventando Smeagol!? Sono corsa in bagno per vedere come stesse la mia faccia e come stessero i miei capelli e la risposta è no. Si diventa Smeagol proprio quando non si accetta ciò che si prova. Dare un nome significa accogliere qualcuno o qualcosa. Io lo faccio, per davvero, tutti i giorni: guardo dentro di me e do un nome a ciò che provo per chiunque. Ed è in quel nome, proprio come scriveva Paul Elouard (lo citavo parlando del mio amore per la Francia), che si trova la libertà. Dall’esilio, dall’ansia, dallo scazzo, dalla paura, dalla pandemia.
A cavallo di una bici
Il tuo principe verrà
E se qualcos’altro vuoi lui te lo darà
Sarà che lavori troppo
E che sorridi a tutti ma
Non ti ho mai vista così bella e così comica
Il principe in bicicletta – Tre allegri ragazzi morti – 2000
La foto della “Torre d’avorio” è © Giovy Malfiori – riproduzione vietata.
Ciao Giovy! Ogni tanto si deve andare in pezzi, non siamo muri di mattoni, siamo fatti di pelle – ossa e sangue e ci sta, per quanto possiamo essere persone “forti”, combattive e abituate a lottare nella vita.
In questo periodo poi è quasi necessario. Quando arriva la crisi la si deve vivere e poi si starà meglio (d’altronde è anche uno dei principi della terapia, prima ci si fa a pezzi e si sta malissimo e poi si inizia a ricostruirsi, e si sta meglio. Si guarisce).
Io sto cercando di rendere i giorni un po’ diversi uno dall’altro. Metto cose diverse, passioni e attività extra lavoro differenti nei vari giorni. Fosse anche solo una particolare preparazione culinaria. C’è da dire che io amo moltissimo la routine, quindi quello forse è la cosa che mi pesa meno.
Anche sul vestirsi, devo dire che non sento molto la mancanza di dovermi vestire e anche quando esco, per la spesa o simili, semplicemente cambia che mi metto il reggiseno (aaargh)… Ognuno ha le sue cose che lo fanno stare bene ed è lì che deva andare a scavare per cercare di portare un po’ di luce.
E fai benissimo a comportarti così, Elena.
Io sento un po’ l’esigenza del vestirmi perché lavoro sempre e comunque da casa… e da ben prima della pandemia.
Leggings e cose comode fanno parte della mia quotidianità e, praticamente, mi vestivo diversamente solo per andare dai miei clienti. O quando sono in viaggio. Grazie, come sempre, per passare di qui e lasciarmi le tua parole preziose. Come te.