
Nothing to be done. Così inizia Waiting for Godot di Samuel Beckett. E continua con un “I’m beginning to come to that opinion“. L’opera è del 1952 e Beckett la scrisse prima in francese per poi tradurla direttamente in inglese. Si tratta di un’opera, quindi, dalla doppia genesi linguistica e io la trovo meravigliosa. Oggi come oggi, in questo anno di pandemia (perché ormai ci siamo. A breve sarà un anno dall’inizio del caos), siamo un po’ tutti Vladimir ed Estragon. O forse siamo tutti Lucky, pronto ad esplodere in uno degli sfoghi teatrali più pazzeschi di tutte le epoche letterarie. L’altro giorno, tra Instagram e Facebook, ho chiesto un po’ a tutti una cosa che non daremo mai più per scontato: come va? Le risposte che ho raccolto mi hanno fatto pensare e quindi, come spesso accade, eccomi qui a scrivere. Per dirla con le parole di Guccini (qui si fanno voli pindarici con la comunanza di temi), siamo come due foglie aggrappate su un ramo in attesa. Ma di cosa? O di chi?
La vita, in panchina

Ho avuto un’impressione forte e chiara: siamo tutti in panchina. Seduti sulla panchina della vita che viviamo. Per quanto cerchiamo di essere protagonisti e per quanto proviamo a essere resilienti, capita di star seduti nell’attesa che l’allenatore ci rimetta in campo a giocare. Diciamo che l’allenatore, ora come ora, ha un po’ la faccia da DPCM e il corpo dell’incertezza. È una sorta di essere mitologico assoluto che non ha sembianza ma ha peso e presenza. I nostri cari Vladimir ed Estragon, nel capolavoro di Samuel Beckett, nella seconda scena hanno un dialogo davvero fondamentale.
E: Let’s go.
V: We can’t.
E: Why not?
V: We are waiting for Godot.
Avete presente Ale e Franz nella loro gag della panchina? Quella che li ha resi famosi a Zelig? Bene, l’ispirazione è tutta in Beckett e in queste prime scene di un’opera che, oramai, ho letto 700 volte e che ancora mi genera dubbi di ogni genere. Godot, lo sappiamo [ma attenzione, spoiler], non esiste probabilmente e quei due se ne restano lì in attesa di comprendere qualcosa che, in realtà, probabilmente non arriverà mai nei meandri dela loro mente. Non posso fare a meno di chiedermi se, anche per noi esseri umani in totale pandemia, sia proprio così ora. Siamo sempre in attesa della risoluzione di questa situazione. Siamo umani: è normale. Guardavamo al 31 dicembre 2020 come il turning point che ci avrebbe mostrato la luce in fondo al tunnel ma stiamo tutti capendo che, in realtà, siamo ancora indietro sul sentiero della speranza. La cosa importante, però, è che il sentiero c’è.
Meraviglioso come a volte ciò che sembra non è…

Meraviglioso… vi ricordate ciò che scrivevo? Meraviglia e terrore sono sta stessa parola in greco antico. Sono settimane che ascolto e riascolto Quello che non c’è degli Afterhours. Mi sta succedendo una cosa bella e ve la voglio raccontare: sto ascoltando (come sempre… ma un po’ di più) la musica che mi ha sempre accompagnata. Mi rendo conto – probabilmente per questioni di età – che tanta della musica che ascoltavo fin da ragazzina, ora mi dice molto di più. Quella canzone degli Afterhours, unita a Waiting for Godot di Beckett e unita a quel “come va?” detto giorni fa mi ha portata a fare un gioco. E ve lo propongo. A furia di stare seduti sulla panchina di Vladimir ed Estragon e a furia di aspettare Godot, ci siamo persi la bellezza del tempo che passa. Ci siamo focalizzati di più su ciò che abbiamo perso ma non su quello che la pandemia ci sta dando. Non la malattia in sé, ci mancherebbe. Ma la situazione di totale instabilità. Perché se è vero che sulla strada battuta si cammina senza pensieri, è esplorando un sentiero dal fondo sconnesso che ci accorgiamo di quel fiore nato, come per magia, dalle pietre. Sicché, giochiamo a Quello che non c’è VS Quello che c’è?
Quello che non c’è

Un bel respiro, Giovy. Devo davvero infondermi tutta la positività di cui sono capace per raccontarvi quello che non c’è. Per dirvi di quel Godot che forse è passato ma io non l’ho visto. E l’ho perso. Da un anno a questa parte abbiamo perso tutti qualcosa. E non sto parlando di vite umane. Quello è un argomento troppo personale e troppo serio, malgrado questo blog arrivi anche in profondità ogni tanto. Sto parlando di quello che, più o meno semplicemente, non abbiamo più per la pandemia. Lo sapete quanto io ami le liste e quando mi servano per stare bene. Ecco, giochiamo? Quello che non c’è, nella mia vita, è quanto segue:
- Non ho più l’agenda piena di partenze: le segnavo con un colore rosa. Perché il rosa mi appartiene. Ne avevo almeno una al mese. Alcune erano segnate con “TBC”, perché tutto doveva era to be confirmed. Allora gioivo quando cancellavo quelle tre lettere e tutto diventava effettivo.
- Non ho più la capacità di programmare: questo è stato ed è, forse, il mio crollo più grande.
Sono sempre stata una che programmava l’infinito. Ora, a metà febbraio, avrei saputo dirti tutto su di me fino ad Agosto. La pandemia mi ha portato via la capacità di farlo. E, soprattutto, di crederci. - La libertà. Non ho più la libertà di decidere cosa fare, quando farlo, con chi farlo, come farlo. Non ho più la libertà di passare giorni su giorni a lavorare per poi concendermene due totalmente senza cose professionali da curare. Non ho più la libertà per rifiutare dei lavori perché, tutto ciò che arriva, è oro.
- Non ho più baci, abbracci, tenerezze, amore, sesso, contatto: mettetela come volete. È inutile raccontarsela. Nulla sarà più come prima. Almeno per un po’ di tempo. Provate a pensare a quanto avete pensato “lo abbraccio o no?” quando avete visto qualcuno. Ve la sareste mai posta, prima, questa domanda?
- La pandemia mi ha portato via la musica dal vivo, il teatro, il cinema.
- Mi manca quel “sto arrivando da te“.
Quello che c’è

La cosa bella di questo gioco è fare la lista di ciò che non c’è e sentirsi, per un momento, quasi svuotati. Fa male e fa paura, lo so. Ricordiamoci però che i vuoti si riempiono e che, anzi, se si è troppo pieni si scoppia. Rendersi conto di ciò che ci manca o ci è stato portato via è sempre più evidente del fatto di capire cosa sia ha. La pandemia ci ha resi davvero traballanti nelle nostre convinzioni e questo potrebbe, però, esserci servito. La non-sicurezza (che è diverso da insicurezza, per dirla alla George Orwell) ci dà la propulsione giusta per renderci conto di ciò che ancora (e per fortuna) abbiamo. Non ce l’ha tolto un anno di pandemia. Teniamolo stretto. Ecco quello che, per me, ancora c’è.
- Ci sono le mie persone: alcune fisse, alcune nuove. E queste “nuove” mi fa sorridere come se non ci fosse un domani: se qualcosa nasce in un tempo come questo, potrà mai durare? Me lo chiedo tutti i giorni ma non trovo nessuna risposta. L’unica cosa da dirsi è che, forse, un tempo come questo ci ha portati a nuovi modi per incontrarci, viverci e conoscerci. Forse parliamo di più. Continuiamo così.
- Ci sono le certezze: tutto crolla ai lati. Il torrione resta in piedi. Come se fosse un castello di sabbia avvolto da un’onda. C’è qualcosa che crolla, è vero. Ma il centro resta saldo. Io ho capito quale sia il mio centro, chi possa esserlo oltre me. Cosa possa esserlo oltre me. E lo difendo come se fossi una Valchiria scesa dal Valhalla.
- C’è il mio lavoro: eccomi, di nuovo con l’armatura da Valchiria. Se, in un anno così, ho difeso il mio lavoro e l’ho fatto fruttare (seppur in maniera più contenuta, data la situazione), cosa mai potrò fare in un momento normale? Heimdallr, scansati… devo uscire!
- C’è la musica: grazie al cielo. La musica. La musica è sempre stata parte di me. Mancano i live, è vero. Ma c’è tutto il resto. E quel “tutto il resto” vibra dentro come energia quando si ama davvero. Per me è così.
- Ci sono i libri: rallentare un po’ dal punto di vista professionale, mi ha permesso di leggere un po’ di più. Probabilmente ne avevo bisogno. Tanto.
E quindi?

Giovy, va bene fare elenchi su elenchi… ma… quindi? Quindi direi che ognuno può vedere negli elenchi ciò che vuole. Mentre scrivo questo post – ve lo dico senza remore – ho ricominciato a dormire da esattamente due notti. Non dormivo da quasi 3 settimane. Andavo a letto e mi addormentavo. Irrimediabilmente alle 3.30 circa mi svegliavo. Potevo addormentarmi alle 21 così come alle 2 e non cambiava. Io alle 3.30 aprivo gli occhi e poi il cuore iniziava a ballare Hey boy, Hey girl dei Chemical Brothers fino all’ora di iniziare a lavorare. Come nei migliori romanzi, questo pezzo della mia vita entrerà nella mia auto-biografia con una frase del tipo “caro lettore, non ti dirò che cosa mi teneva sveglia“. Un po’ in stile Jane Eyre. Charlotte Brontë me lo concederà. Perché ho detto questo? Perché quello che mi auguro è di dimenticarmi il perché della mia ansia. Lo voglio dimenticare perché così ne sarò indifferente. L’oblio – questa strana parola che non mi appartiene – magari mi incontrerà per strada. Magari, come nella Favola di Caos e Anima, sarà un nuovo personaggio delle storie che scriverò. Per ora no. Per ora, però, mi rendo conto di essere capace di vedere il bello anche nella merda. Come diceva De André, dal letame nascono i fior. Preferisco chiudere questo mio delirio peronale con tanto di giochino da fare con uno degli esseri più speciali di tutta l’umanità di tutti i tempi: William Blake. Affido a lui una grande verità. Fatela vostra nel momento in cui, in questo periodo così difficile, una lacrima vi solcherà il viso.
Every Tear from Every Eye
Becomes a Babe in EternityAuguries of Innocence – William Blake – 1863
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