
Una settimana fa era il mio compleanno e mi avete aiutata a vivere una giornata meravigliosa. Ero timorosa, non appena sveglia, su come sarei stata: erano giorno in cui il mio umore non era al massimo e temevo di sentire molto la stretta di un compleanno solitario. E invece no. Non è stato così. Sono stata rinchiusa nella mia torre per tutto il giorno, da brava Rapunzel, ma non sono mai stata sola. Non ci sono stati abbracci fisici ma ci sono stati quelli portati da miliardi di parole. Allora mi sono chiesta una cosa: quando torneremo anche a parlare come un tempo? Oltre che a vederci come un tempo.
Che anno è, che giorno è?

Sto scrivendo questo post mentre fuori diluvia, è freddo e vedo le gocce penzolare dalle gemme del Tiglio Attiglio. Il mio stereo sta facendo parlare il cd dell’Unplugged degli Alice in Chains. Quel disco non mi è mai sembrato più bello di ora. Adesso che lo sto ascoltando. Sento la voce di Layne Stanley come fosse una sorta di coltello che affonda nella realtà e la sviscera. Per quello che ne so, oggi potremmo essere piombati nel 1996. Io avrei 18 anni e magari mi starei preparando per qualche lezione di guida. Invece di anni ne ho 43 ma – e ne sono felice – mi porto dentro delle cose di quel periodo. Cose che non mi lasceranno mai. Spesso mi ritrovo a dire cose del tipo “devo avere qualche problema: io mi vedo sempre uguale“. Mi sono accorta che questa frase, però, non è corretta. Un conto è vedersi sempre uguali, amare le stesse cose del passato e, un conto, è esserlo in tutto per tutto. Di per sé, come direbbe Tennyson, siamo una parte di tutto ciò che incontriamo e abbiamo incontrato. Dal suo Ulysses “I am a part of all I met.” Non siamo mai uguali al giorno prima. Siamo solo fedeli alla nostra essenza. In queste ultime settimane ho letto e riletto i miei diari per tirarne fuori delle storie da pubblicare qui. Se c’è un complimento che mi posso fare – e perdonatemi la tanta presunzione – è quello di non aver mai tradito la mia essenza. L’ho coltivata, l’ho fatta fiorire, ci ho aggiunto cose belle e tolto le cose che non andavano. E sono qui. C’è, però, una differenza sostanziale che mi dice che non siamo nel 1996 e mi fanno esattamente capire che anno sia, che giorno sia (Mogol mi perdonerà il fatto di aver messo il congiuntivo. Ci stava): oggi non parliamo più come in quegli anni. Come l’ho capito? Ora vi faccio ridere per davvero.
Tutta colpa di Dawson’s Creek

Il 15 gennaio – lo sappiamo tutti – tutte le stagioni di Dawson’s Creek sono arrivate su Netflix. Io ero pronta, proprio il giorno 1, a guardarmi non so quante puntate e sto andando avanti a oltranza. Vi racconto una cosa: ho la videocassetta registrata dalla tv con l’ultima puntata della serie. Me la regalò un mio amico molti anni fa e ancora apprezzo tantissimo quel gesto. Il mio Bildungsroman in versione serie tv è, senza dubbio, Beverly Hills 90210 ma in Dawson’s Creek vedo molto dei miei anni con il numero “1” davanti. E anche qualcosa dell’inizio di quelli con il “2”. Una delle cose che, però, mi salta più agli occhi e alla mente guardando Dawson’s Creek, è il fatto che la gente, in quella serie, parla. E parla di cose importanti. Adesso… Soprassediamo sulla capacità di Dawson Leery di farsi delle pippe mentali anche dove non ci sono. Si tratta di un atteggiamento che ho ritrovato nei miei diari, soprattutto in Giovy I. Incontrarsi, parlarsi, chiarirsi e anche farsi del male a suon di parole, fraintendersi, dire le cose in modo sbagliato: queste sono cose che fanno davvero passato all’ennesima potenza. In un mondo dove la comunicazione è, ormai, padrona di ogni azione… perché non parliamo più così tanto?
Hey tu, dobbiamo parlare!

Fateci caso. Fermatevi un attimo a pensare. Quando eravamo più piccoli (non mi sentirete mai dire “più giovani”), passavamo le serate intere a contatto verbale con tutti. Ci si sedeva su un muretto o si andava in birreria e si parlava fino allo sfinimento. Certo, vien da dire, c’era solo quello. Insomma… mi viene da rispondere. Una delle cose che ho maggiormente rimarcato nelle telefonate ricevute al compleanno è stato che certi rapporti sono certezze perché sono nati in tempi in cui, per conoscersi, si parlava. E anche tanto. Guardo le puntate di Dawson’s Creek e invidio quei momenti passati a chiarirsi. Ora vi faccio una domanda: quand’è stata l’ultima volta che avete parlato così con qualcuno con l’intento di capire dove finiste voi e iniziasse lui o lei? E questo a presindere dalla tipologia di legame, rapporto o sentimento. Nel mio caso, credo sia stato luglio 2020. E prima di quel luglio 2020, c’è l’abisso fino, almeno, al 2012. Qualcuno, la settimana scorsa, mi ha scritto un messaggio dicendo una cosa vera che mi ha fatto sentire assurda: “veramente sono 12 anni che non parliamo“. Oh cazzo, ho pensato io. Perdonate il francesismo. Viviamo in un’epoca in cui parlare sarebbe la cosa più facile del mondo. Eppure non lo facciamo apertamente. Avete visto l’ultimo video di The Jackal? Io, che sono fatalista (per alcune cose) e credo nel karma della casualità, ho pensato fosse stato fatto per rafforzare i pensieri che facevo da giorni. Affidiamo a post su Facebook, stories di Instagram o tweet al mondo qualsiasi nostra apertura verso il mondo. Non sarebbe mica più semplice alzare il telefono e dire “hey tu, dobbiamo parlare“?
E per il potere di una parola…

Lo sapete come sono, ragiono a voce alta e lascio che le parole escano dalle mie dita per far sì che i pensieri dentro di me la finiscano di ribollire. Il fatto è che, oggi come oggi, darei il mio regno per due cose: il contatto fisico (qualsiasi cosa si porti dietro) e parlare. Data la pandemia, mi potrei accontentare di una chiacchierata virtuale, ma guardandosi in faccia. L’ideale – e cosa che farebbe felice la mia anima e il mio cuore – è poterlo fare in presenza. Avete presente uno di quei pomeriggi o di quelle sere in cui inizi a parlare e poi ti fermi per bere qualcosa perché ormai sei arsa dalle parole e poi dici “aspetta che guardo che ore sono“. Lì ti rendi conto della forza delle parole: le parole sospendono il tempo, per poi dilatarlo. Le parole sono come fili invisibili, forti come l’acciaio. Le parole legano, le parole sono importanti (cit.), le parole trasmettono (o non trasmettono) ciò che proviamo per qualcuno. Certo, le emoticon aiutano (e anche tanto) ma le parole sono di più. Le parole sono potere ed energia allo stesso tempo. Potenza e voglia di esserci, anche distanza. E il silenzio? Le non-parole (per usare un termine che potrebbe essere stato di George Orwell) sono esse stesse parole. Nel non dire, si dice. Però se dicessimo sarebbe molto meglio: sarebbe più coraggioso. Che ne dite se, in questo 2021, il primo buon proposito da perseguire sarebbe quello di parlarsi di più? Forse potrebbe essere un buon metodo per sentirsi più leggeri nell’anima e per imparare di nuovo i primi rudimenti del contatto umano: lo sguardo, l’attenggiamento del corpo, l’intensità della voce. E poi tutto quello che si ha da dire.
Et par le pouvoir d’un mot
Je recommence ma vie
Je suis né pour te connaître
Pour te nommerLiberté
Paul Elouard, Liberté, 1942
Io ho la grandissima fortuna di avere ancora rapporti di amicizia così. Soprattutto con una, la mia storica amica che ora vive a Toronto.
Da quando è partita sono iniziate prima lettere, poi registrazioni su cassetta e ora vocali infiniti su whatsapp. Ovviamente il tutto intercalato da telefonate infinite in orari che vadano bene ad entrambe. E si parla, di tutto e di niente, di cose fondamentali e di cazzate successe ogni giorno.
Oggi come oggi tutti i rapporti sono più veloci, viviamo una vita superficiale senza voglia di approfondire.
Per fortuna ci sono ancora isole felici. E c’è la capacità di portarle avanti e farle crescere
Credo che la nostra sia ancora una generazione molto fortunata in quanto a rapporti d’amicizia e relazioni umane.
Come dici tu, per fortuna ci sono ancora isole felici.