
“Sento le voci, sì mi sento chiamare dalle mie fantasie, dal profondo del mare dalla tv, dalle porcherie, dal silenzio dei sogni inconfessabili…” Quanto mi piace questa canzone di Cosmo, quanto mi piace Cosmo e quanto sento mie queste parole. Ci pensavo circa una settimana fa in aereo: quando volo lascio spesso andare i miei pensieri, come quando viaggio in treno. Metto in silenzio il mio essere (il che, se mi conoscete, capirete quanto possa essere difficile) e lascio che sia la mia testa a parlare. Spesso parlo da sola. Dentro di me. Ok, non prendetemi per schizofrenica o chissà che cosa. Io amo sentire le voci delle persone dentro di me. Mi piace ricordare la gente per il sorriso che mi è stato regalato, per il tono della voce, per le sensazioni che mi ha lasciato nel cuore. Shakespeare scriveva ” So long lives this, and this gives life to thee.” Era il Sonetto 18, se non sbaglio. Io credo che tutto viva in noi finché ci ricordiamo la voce di una persona. Tutto ciò che questa persona ci ha dato vive in noi fino a quel momento. Non trovate?
Voce+sensazione+immagine stampata in testa = ricordo

Diamo un senso al paragrafo di introduzione. Prima che chiamiate qualcuno per portarmi via. Il ricordo è un processo conscio da un lato, inconscio dall’altro. La nostra mente registra un qualcosa e se lo tiene stretto. Il mio primo ricordo – testimoni i miei genitori (mio padre è ancora vivo, potete chiederglielo) – risale a quando avevo circa 4 mesi. Una neorologa che lavorava nell’ospedale dove era infermiera mia madre ha confermato che possa essere possibile. A quell’età si hanno solo delle lievi immagini, dei fotogrammi che però possono restare impressi. Se richiamo alla mia mente quel ricordo, rivedo quel momento come fosse ieri. Era una delle prime notte in cui mia madre lavorava, dopo avermi fatto nascere. Io ero disperata e non la smettevo di piangere. Probabilmente lo status di stress (di già!?) nel quale mi trovavo, ha aiutato quel ricordo a fissarsi in me. E da lì non è più finita. Ho deciso di studiare storia, da un lato, per dare un perché al mio totale ricordare. E poi vado al supermercato e mi dimentico le uova. Ma questa è un’altra storia. Ricordare, dicevamo. Il ricordo è quel qualcosa dolce e amaro che condisce la nostra esistenza. Se fosse un gusto sarebbe, per me, la salsa agrodolce che ti danno al ristorante cinese: non sai mai cosa aggiungerà al cibo che stai per mordere. Il ricordo è un impasto, di quelli morbidi come quello del pane, fatto di un’immagine, di una o più sensazioni, di una voce da abbinare a tutto questo. Poi si copre per bene e si lascia riposare al caldo in quel corridoio che, dentro di noi, unisce mente e cuore. Toglietemi tutto ma non i miei ricordi, direi io. Lo scrissi anche un po’ di tempo fa quando, ripetutamente, mi scordavo anche chi fossi. Sento le voci, sì. Le voci dei miei ricordi. Sono legata a quelle voci come poche altre cose al mondo. Guai a portarmele via perché, nel momento in cui non ci saranno più, il ricordo svanirà. Come un nastro di seta che si sciogle al vento e vola via.
Cambia il modo di ricordare

Sono molte le voci che vivono in quel corridoio che ho citato prima. Sono molte e tante devono restare. Possono solo aumentare e non diminuire. Quelle che sono parte di me, alla veneranda età di 41 anni, sono ciò che sono io in primis. Sono il sale della mia terra, quella di cui sono impastata. Sono il dolce della mia vita, quello che non passerà mai. Sono l’amaro generato dal dolore, da quel dolore che vale la pena di ricordare. Un articolo molto interessante che ho letto un paio di giorni fa diceva che i mezzi di comunicazione che siamo abituati a usare ai nostri tempi stanno cambiando radicalmente il nostro modo di ricordare, la nostra modalità di registrazione di ciò che è importante nella nostra esistenza. Questo concetto un po’ si rifà (per puro caso) a quello che scrivevo parlando delle lettere scritte a mano. Stiamo cambiando e non so se stiamo evolvendo, nel senso più darwiniano del termine. Sembra che, al giorno d’oggi, si usino più supporti di memoria (un cloud, uno smartphone) che la memoria umana. L’articolo dice “Invece di ricordare ciò che abbiamo mangiato al matrimonio di qualcuno, scorriamo in dietro per guardare le foto che abbiamo scattato al cibo“. Ci pensavo l’altro giorno quando, per ricordarmi il giorno della mia visita a Comacchio, sono andata a vedere la data sulle foto, anziché sforzare la mia mente. No, non fa per me. Amo tutto ciò che la tecnologia mi sta regalando ma resto una ragazza all’antica. Voglio scrivere, voglio ricordare con la mia mente, voglio sforzarmi affinché tutto funzioni come sempre.
Le mie voci

Vi sto per aprire il cuore. Anzi, aprire la mente, che per me è più del cuore. Dentro quel corridoio mentale dove archivio tutto, dove c’è ogni parte delle persone che hanno lasciato il segno in me, degli avvenimenti che hanno fatto sì che io sia questa donna con i ricci biondi e i capelli selvaggi pronta a scrivere ogni cosa. C’è la voce di mia madre… e guai a toccarla. Lei è morta da quasi 7 anni e io non oso scordarmi il suo modo di parlare. C’è la voce del mio amico Giovanni, che mi ha lasciata troppo presto e stupidamente quando avevamo 15 anni. Lo sento parlare, sento che mi parla e la sua voce è ancora in me. C’è la voce delle mie nonne, entrambe: la Ida e la Cecilia. Sabato scorso mi sono addomentata sul divano, dopo pranzo, e ho sognato di andare a trovare mia nonna Cecilia. Mi sono svegliata prima di vederla ed ero incazzata come poche altre volte al mondo. Non nel sogno: nella realtà. Avrei voluto tanto vederla, dopo così tanti anni. Lei è lì nella mia mente, la sua voce è ancora lì che mi fa, in dialetto veneto, “dighelo a la nona Ceci. Vuto che te fasa el tè?“. C’è la voce di chi mi sorride con gli occhi ogni volta che ci vediamo, quelle poche volte che ci vediamo. C’è la voce di me bimba, registrata per caso su di una vecchia cassetta di mio fratello. Non so perché la mia voce era finita lì. C’è la voce del cantante dei Marlene Kuntz in una sera d’estate del 1995. 17 agosto per la precisione. Assieme a quella voce c’è una sensazione dolce e forte, dolorosa e bella. Ci sono io che divento grande. Ci sono gli amici e le amiche che vedo troppo poco. C’è l’eco del primo “ti amo” detto con convinzione e di tutti quelli che non sono mai stati detti. Ci sono voci che parlano di cose belle. Solo cose belle. Potrei andare avanti giorni a raccontarvi delle voci che sento e che voglio sentire. Quello che mi chiedo è se sia lecito, o meno, far sapere a tutte quelle persone (ovviamente ancora in vita e che sia lunga, please) che loro sono in me. Perché potrei essere fraintesa. Perché potrei io stessa a non aver capito perché. Perché non è detto che gli altri abbiano la mia stessa voglia e modo di comprendere il mondo e i rapporti che lo regolano. Questo potrebbe essere il mio proposito per il 2019: raccontare alle mie voci cosa sono per me. Parlare è toccarsi. Raccontarsi è di più. Ricordarsi è intimità pura. Che si fa… lo faccio?
Sometimes things become possible if we want them bad enough.
T.S.Eliot
Colonna sonora del post: la canzone di Cosmo citata all’inizio del testo e Cuore di Clavdio. La conoscete?
cara Giovy, io parlo da sola da sempre. Da piccola mi mettevo davanti allo specchio e facevo discorsi lunghissimi e non ho mai smesso (anche senza specchio). Come te non parlo esattamente da sola, parlo a qualcuno di caro che non c’è più o comunque non ho vicino, sento cosa mi direbbe lui/lei in quella circostanza, ricordo il suo modo di essere/parlare e agire.
Questa capacità è bellissima, perché anche io sono convinta che fino a quando sentiamo queste voci le persone sono vicine a noi, dentro di noi. Ed è bellissimo.
Ed è vero che la tecnologia sta influendo modo, in modo anche negativo, sulla nostra capacità di ricordare le cose, di sforzare e allenare la memoria. Temo che a lungo andare questo avrà effetti anche molto negativi, staremo a vedere e intanto cerchiamo di sforzarci e di usare le nostre cellule grigie e meno i cloud! 🙂
Leggevo proprio di come ora si ricordi per fotogrammi più che per uno scorrimento lineare degli eventi. Ci vuole più cervello e meno smartphone.
Ps. Felice di non essere l’unica a parlare da sola.
Ad esempio a me una cosa che lascia basita sono tutte le persone che ai concerti invece di godersi il momento, ballare, cantare, guardare lo spettacolo, tirano su lo smartphone e registrano uno spezzone… Sono momenti che non torneranno più, dovremmo davvero ricominciare a vivere i momenti e non pensare per fotogrammi.
Vero? Anche perché quello spezzone non potranno mai usarlo. Un conto è un minuto su due ore di concerto… ma io, forse perché sono una ragazza all’antica, mi vivrei il momento.
Come è intimo questo post. Bravissima. Fa riflettere.
Grazie mille Eleonora.
La tua ultima frase, “parlare e toccarsi…” è bellissima. Anch’io ho il tuo stesso rapporto con le voci. La mia testa ne è piena ed è vero che non sono altro che una diversa forma di tatto. Però non so chi sia Cosmo °_°
Sei giustificata del non sapere chi sia Cosmo. Ultimamente si sente spesso in radio (su Radio Deejay, per esempio) ma viene dal mondo dell’elettronica indie. A me piace molto, anche se il mio genere preferito è altro. Ti ringrazio per aver apprezzato l’ultima frase. Per me è davvero così.
Anche io faccio discorsi incredibili con me stessa e con le mie “voci” nella testa. Credo sia un sintomo comune di chi ha tanta curiosità e tanta voglia di condividere. Condivido in pieno quello che hai detto sui ricordi: sono una delle cose più intime e preziose che abbiamo.
Felice che anche tu faccia parte del club 🙂
Non conosco questa canzone e la andrò ad ascoltare, promesso. Volevo solo dirti che anche io parlo spesso da sola, e lo faccio quando viaggio in macchina. Fingo di parlare al telefono tenendo l’auricolare all’orecchio anche se non c’è nessuno dall’altra parte… E parlo, parlo, parlo: dico tutto quello che non ho mai detto, che vorrei dire, che dovrò dire… Non sento le voci, ma vedo le facce della persona a cui vorrei parlare davanti a me.
Ok, non chiamare la neuro, ci vado da sola. 🙂
Non chiamo la neuro, perché altrimenti dovrei andarci anch’io! W le persone che parlano da sole.