
Anche in Senegal arrivò il Natale. Ed io venni caricata sulla 4×4 del buon Père Ambroise e venni portata al suo villaggio d’origine … un posto dalle parti di Thiès, un posto dove non si parla wolof bensì lingua sérère. Ambroise era un gesuita senegalese che parlava un italiano spettacolare. Durante il viaggio mi raccontò di aver studiato per un po’ in Italia e di leggere spesso libri italiani che qualche altro prete gli portava dall’italia. Simpaticissimo e molto cordiale, mi fece addirittura guidare quando abbandonammo la strata asfaltata per le piste su terra rossa.
Io ero in condizioni pietose … non mi vedevo ma conoscendomi lo so per certo. Quella fu la nostra vigilia, passata quasi a tornar bimbi mentre il muezzin impetuoso non la smetteva di chiamare i fedeli. Il Ramadan sarebbe durato ancora per tre giorni. Tornando al 25, Ambroise guidava in mezzo alla polvere e la polvere cominciava a lasciarmi scorgere quei primi sentori di civiltà umana. Tra i baobab cominciavano a comparire, qua e là, delle piccole casette quadrate, in muratura.
Quest’ultime erano spesso affiancate da delle piccole capanne, rialzate ed io non sapevo proprio dove fossimo finiti. Chiesi ad Ambroise più volte il nome del suo villaggio e più volte lo dimenticai. Arrivati lì, lui cominciò a parlare in ligua sérère, traducendo prontamente per me. Si preparò per la messa che si sarebbe tenuta in una specie di capanna più grande. Entrai e mi sedetti quasi sul fondo. Arrivò tutto il villaggio e tutti vestiti in un modo spettacolarmente colorato. La messa fu intensissima, quasi tutta cantata e ballata fatta eccezione per il sermone di Ambroise che prima parlò nella sua lingua, poi traduceva in francese per me e per altri volontari che erano arrivati da non so che villaggio. Loro erano olandesi.
Mi stupì la sua forza, mi stupì la felicità di un annuncio religioso vecchio di duemila anni che si perpetuava in quel momento, tra quella gente, come l’arrivo di un qualcosa di inaspettato. Qualcosa di nuovo e di eternamente importante allo stesso momento. Mi sentii commuovere durante quei momenti. La forza che sentivo attorno a me era talmente grande da scuotermi come una foglia al vento. Niente di trascendentale ma un’umanità più grande del mondo intero. Come ogni Natale che si rispetti, ci fu il pranzo. Cous-cous, carote, altre radici di cui non saprei dirvi niente e carne di capra. Tutti seduti sotto un baobad immenso, dalla parvenza quasi morta ma dalla vita immensa.
Mi dissero, quel giorno, che più il baobab sembra morto, più contiene vita al suo interno. Fu così, sotto il grande albero, che imparai quanto difficile è mangiare con le mani una cosa minuscola come il cous-cous senza brodolarsi ogni centimentro di mani. Fu lì che capii quando è bello mangiare tutti dallo stesso piatto. Fu in quel momento, che pensai per la prima volta che gran parte del giorno non mangia con coltello e forchette. Ci sono quelli che mangiano con le bacchette e tutti quelli che mangiano con le mani. E, ripeto, mangiare con le mani non è così facile. I bambini giocavano ed io sentivo dentro me una felicità che da molto non provavo. Per portarmi a casa un po’ di quella sensazione speciale li fotografai, in pieno sole. Ora riguardo quella foto e penso a quel Natale di molti anni fa. Risento dentro me quel sole e quella felicità.
lasci sempre delle straordinarie sensazioni. grazie
"Niente di trascendentale ma un'umanità più grande del mondo intero."
bella riflessione
@Hombre: grazie mille! 🙂
Molto emozionante. Mi spiace per il prode Hombre, ma si sente benissimo anche l'odore della famosa crema di nocciole. 🙂
Ma che poesia questo post!!!! Ero li con te! Grazie!!!!!
Un bacioneeeee!!!!
Un Natale da vera viaggiatrice, direi…nel tuo stile!
Un Natale assolutamente fuori dal comune! Ma che fantastica esperienza deve essere stata…
@MM + Devis + Miss Fletcher + Scrutatrice: grazie per passare sempre di qui!!
Scoprire i commenti è come trovare tanti piccoli pacchettini di natale.
regali emozioni… come sempre!
Grazie Silvia! 🙂